Una notizia omologa, nel caso di qualsiasi altro club del mondo, avrebbe portato via al massimo una “breve”, un taglio basso magari nei quotidiani sportivi. La società x annuncia l’accordo con lo sponsor y, dall’anno prossimo apparirà sulle magliette il marchio z per un bel po’ di soldi. Ma se la società è il Barcellona, invece, le cose cambiano: e quella scritta “Qatar Foundation” che vedremo sul torace di Messi e Iniesta dalla prossima estate ha abbattuto un muro. «Mes que un club», più di un club, hanno sempre cantato con orgoglio a Barcellona, l’hanno scritto anche nella pancia del Nou Camp tramite seggiolini. Perché il Barça è bandiera, simbolo, appartenenza, identità e portavoce globale della nazione Catalogna. Una diversità enunciata e mostrata al mondo tramite tante piccole e grandi cose: la più nota, quella porta chiusa ai “main sponsor” che in ogni angolo del mondo invadono col loro logo le magliette, aggiungono i loro colori a quelli che rappresentano la fede del tifoso. Il Barcellona non ha mai consentito questo. Blau e grana, in rigoroso catalano e nulla più: se non, nelle stagioni più recenti, la scritta Unicef, sponsor sì, ma «solidale» che ha molto giovato all’immagine della società: gli altri prendono, noi diamo e spingiamo a dare. Ora la grande retromarcia, assai ben pagata: cinque anni di accordo, 30 milioni netti a ogni giro di calendario più eventuali bonus legati ai successi che, a meno di sconquassi, a questo Barça delle meraviglie sembrano assicurati anche nelle prossime stagioni.Un rubinetto da 160 milioni di euro che Javier Faus, “ministro dell’economia” ha dipinto come una vittoria in Coppa o in Liga. «Ci poniamo come leader indiscutibili anche a livello di sponsorizzazioni di maglia, molto più avanti di altre grandi squadre internazionali, è un livello record di entrate per il calcio specie nel clima economico attuale». Paroloni, quelli di Faus, pronunciati glissando sul vero messaggio: la nostra maglietta, la nostra bandiera venduta agli sceicchi. L’unico accenno fatto alla caduta del muro ha avuto toni confinanti col grottesco visto che il club ha sottolineato come l’accordo riguardi «un logo istituzionale appartenente a una fondazione» e non «un marchio commerciale». Sarebbe stato meglio stare zitti o ancora più ammettere che, con 430 milioni di euro di esposizione con le banche e 80 milioni di “rosso” nell’ultimo giro di bilancio, la vendita dell’anima blaugrana al diavolo-Emiro, nero come i suoi petrodollari, era un finale ormai obbligato. La politica e i grandi poteri economici, evidentemente, non bastano più a reggere una holding sportiva grandissima grazie a un’organizzazione fantastica e costosa: non paghi Messi, non compri Ibrahimovic a 70 milioni e lo dai via praticamente gratis l’anno seguente, non tieni in piedi un meraviglioso, unico settore giovanile se non hai una connessione illimitata con le banche e le stanze dei bottoni. Connessione che non si è certo interrotta, ma che è forse stata disturbata dall’Uefa, dalle imminenti logiche (e sanzioni) del fair-play finanziario che hanno probabilmente indotto al grande passo. Ora sembrerebbe logico attendere notizie anche da Madrid e da un Real che ha sempre avuto nella impunità di bilancio, il più grande punto in comune con i rivali di sempre. Uno strapotere di portafoglio infinito che, tra l’altro, ha svuotato la Liga, ne ha impoverito i contenuti.Barça-Real e Real-Barça sono le due partite che da anni decidono l’esito del campionato: gli altri corrono a chilometri di distanza e vengono doppiati a suon di gol negli incroci con le due fuori-categoria. Il Maiorca, tanto per fare un esempio spagnolo, è stata la prima squadra esclusa quest’anno dalle Coppe per inadempienze finanziarie. «I poveri, che si arrangino», si dicevano da soli i contadini nei tempi duri. Stavolta l’hanno dovuto fare anche i ricchi.