«Magnificentissima era la brigata. Lucentissimo l’opposto cuoio delle scarpe e della testa. Le undici cravatte sfioccavano nell’immacolato Solino frusciando lungo le seriche camicie». È il ritratto dei giocatori del Padova apparso sulle pagine de
Il Veneto del 3 novembre 1927, riportato in un libro gioiello di
Antonio Barillà che s’intitola proprio
Lucentissimo l’opposto cuoio delle scarpe e della testa (Sedizioni). A pretendere oggi di ritrovare tanta “poesia" nelle colonne dei giornali e nelle cronache sportive o addirittura nelle tribune stampa dei salotti televisivi, si rischia di venire condannati per direttissima: per eccesso di senso nostalgico. Ma attenzione però: senza neppure più l’ombra di quella civile poesia il giornalismo sportivo sta annegando, insieme a tutto il resto, negli abissi del malcostume popolare. Magari fossimo fermi all’era del Bar Sport di
Stefano Benni, che non a caso nel suo ultimo romanzo
Pane e tempesta (Feltrinelli) mette in campo scampoli di sana nostalgia trascrivendo di pancia di un’infanzia consacrata alla «pallastrada»: le partite di calcio nella piazzetta di paese. Dal
Bar Sport siamo scivolati direttamente al Baraccone calcistico. La prima pietra, sulla quale poggia il tendone del circo mediatico pallonaro, l’ha messa
Aldo Biscardi con il suo rissoso e irascibile
Processo apparso sul piccolo schermo trent’anni fa (15 settembre 1979, su Raitre). Lì è cominciata l’era dei "giochi di ruolo": il magistrato che recita la parte dello juventino, il politico che fa il romanista apocrifo, l’avvocato interista cinico e scontento,
Carmelo Bene il milanista visionario, l’ex arbitro che non ne azzeccava una in campo e neppure la moviola lo aiuta dallo studio a riabilitarsi dal dissenso degli stadi, in cui hanno fischiato lui e il Trap. Di autentico, c’era solo la maschera di
Costantino Rozzi che faceva se stesso: il presidente dell’Ascoli, la provinciale vittima sacrificale delle grandi sorelle del calcio italiano. Un teatrino nazionalpopolare consolidatosi di puntata in puntata, di anno in anno, auto-assolto per la mano lieve e smorta della sua stessa giuria anche nei momenti più concitati della telerissa che Aldone Biscardi, giudice supremo e principe dello
sgub gestisce da par suo con il monito secolare: «Non parlate tutti insieme, ma solo due o tre alla volta». Un plot quasi gustoso ed esotico alle origini come i pendolini di
Maurizio Mosca, ma che nei decenni è sconfinato nel
trash, perdendo quegli scampoli di tradizione letteraria in cui era possibile nel chiacchiericcio assordante persino ascoltare un dibattito aulico e serrato tra il fustigatore dei costumi nazionali
Oliviero Beha e lo scrittore
Giovanni Arpino, che con lo stile estratto delle pagine del suo
Azzurro tenebra abbozzava la difesa della Juventus dell’Avvocato. Il tutto andava in onda dopo la sbornia Mondiale di Spagna ’82, che portò a una crescita spasmodica della tiratura de giornali sportivi (l’Italia ne ha cinque, uno interamente dedicato alla Roma, il
Romanista). La
Gazzetta dello Sport nel quinquennio ’77-’82 passò da 160mila copie a un milione (cifra attuale di tiratura complessiva di tutti e cinque i quotidiani sportivi). Un boom che generò anche la moltiplicazione miracolante delle trasmissioni calcistiche sulle emittenti private, da Aosta fino a Trapani, con la diffusione del "biscardismo". Ovvero la clonazione spudorata di quel
Processo del lunedì che
Remo Bassetti in
Storia e storie dello sport in Italia (Marsilio) bolla come «un programma in cui la futilità della chiacchiera sportiva scade in rissa becera, fungendo purtroppo da modello comunicativo anche per trasmissioni politiche e culturali». È da questa matrice perniciosa che fa sorridere e diverte i telestolti, forse dati gli ascolti la maggioranza dei cittadini della Repubblica fondata sul pallone, che il sistema transfugo da una rete all’altra ha generato l’ultimo
monstrum: il «giornalismo tifoso». Alle origini l’opinionista era in grado oltre che di controllare anche di simulare un certo spirito di bieco partigianato, ora invece l’essere giornalista-tifoso è la carta d’accesso nelle trasmissioni e permette di arrivare al rapido e facile consenso popolare.
Elio Corno e
Tiziano Crudeli, ultimi epigoni del biscardismo postmoderno (nel
Processo profugo dopo Calciopoli e accolto nell’emittente privata 7Gold) sudano e si affannano durante dirette no-stop per teledipendenti cronici, allo scopo ultimo di incarnare il pensiero, le gioie e le frustrazioni rispettivamente dell’interista e del milanista universale. Teatrini al limite della sopportazione umana, telecronache straziacuore con simulazione del pre-coccolone da gol con istigazione del conduttore di turno, selezionato nella riserva degli ex reduci della carta stampata e che non ha resistito alla videochiamata. I figliocci di Biscardi si muovono come dei vigili urbani nel traffico delle dirette-ingorgo, sobillando i protagonisti colpiti da quella sindrome che il critico letterario e grande amante del calcio
Massimo Raffaeli definisce «ipertrofia del ruolo, con la proliferazione di tromboni, marchette, improvvisati
maîtres-à-penser». Un refrain sempre uguale a se stesso tutte le domeniche, i martedì e i mercoledì di Coppa. Spezzatini, stufati e stufanti, in cui le partite ormai fanno solo da cornice all’imprescindibile e macabro dibattito sui «motivi della crisi drammatica che – a rotazione – ha colpito Milan, Inter o Juventus». Appelli allarmanti per le sorti del Paese, lanciato in tandem dall’ex calciatore in pensione (siamo trascesi da
Omar Sivori all’ultimo panchinaro di serie A) alle 14 della domenica pomeriggio con il placet dell’accademia del pensiero debole, sottoscritto o boicottato via internet e sms dai messaggi di approvazione o censura dei telesupporter e riferiti dalle ugole sfinite dei giornalisti-tifosi a mezzanotte. Titoli strillati, iperbole cubitali e lanci d’agenzia che dalle gazzette vengono riprese, ricucite, ricicciate, e ingigantite fino alla realizzazione del ciclopico paradosso, perché abbia effetto sulle menti degli ipnotizzati dal tubo catodico. Il giornalista-tifoso nell’arco della giornata satellitare è in grado di dire a più riprese frasi come: «Adriano è il più forte attaccante al mondo», seguita due ore dopo su un altro canale dalla precisazione: «Adriano fino a ieri era il migliore al mondo, oggi no», per concludere a tarda ora nell’emittente ostinata e contraria con la clamorosa smentita: «Adriano è un giocatore finito!». La coerenza è stata abolita da un pezzo e senza previo referendum. E come cantava
Giorgio Gaber: «La qualità non è richiesta». Il termine "qualità" oggi è solo un termine-tormentone, abusato dai giornalisti-tifosi più raffinati, per indicare la superiorità tecnica di una squadra rispetto all’altra. Un gergo povero, sgrammaticato usato sempre più da uomini senza qualità, né sintassi. Ectoplasmi microfonati che in appena tre decenni sono stati in grado, con la connivenza dell’abbassamento criminale e preoccupante del dignitoso senso comune, di oscurare l’esemplarità, alla radio e in tv, di galantuomini
super partes. Basti pensare alle telecronache di "The voice"
Nando Martellini, alla
Domenica Sportiva di
Enzo Tortora e poi di
Tito Stagno che sopravvive almeno nell’elegante conduzione di
Massimo De Luca. Così come è sopravvissuto
Tutto il calcio minuto per minuto di
Enrico Ameri e
Sandro Ciotti, e il
90° Minuto di
Paolo Valenti che però rimane inimitabile con tutti i suoi attori protagonisti dai campi, i
Luigi Necco e i
Tonino Carino che rendevano più leggero il gioco del calcio, senza per questo renderlo mai sgraziato e tanto meno ridicolo, come invece l’hanno ridotto queste brancaleoniche confraternite dello zapping. Un’orda, al servizio dell’opulenta "Azienda calcio" e non dello Sport, che indottrina il popolo dell’ultimo stadio a ignorare anche la sola possibilità di una lettura alta e altra, come il gaddismo applicato al pallone di
Gianni Brera. E si concede persino il lusso di parodiare, senza alcun talento, la cometa ineguagliata di
Beppe Viola che, senza inginocchiarsi mai, intervistava in tram Gianni Rivera – da casa sua a San Siro – prima di un derby Milan-Inter. Allo sfascio in cui siamo, nei confronti dei giornalisti-tifosi, Beppe Viola, senza ironia, in questa domenica bestiale rilancerebbe la sua proposta di condanna: «Ditemi se non è il caso di prendere tutti quelli che fanno gli spiritosi sui 90 minuti domenicali e mandarli in Siberia a vendere gelati».