«Nella vita politica nostra mi pare ci sia stata una mutua degradazione. Ci si influenza a vicenda, fatalmente. Fra dominante e dominato c’è uno scambio fatale per cui il livello morale della classe dominante influenza il livello morale dei soggetti, dei cittadini. E viceversa». Un pensiero che per cupo realismo e la forza della sua attualità, sembra appena sgorgato in questo Paese. È il pensiero forte di Primo Levi, in un’intervista rilasciata a «L’Unità» il 26 settembre del 1986, pochi mesi prima della sua morte. Era l’11 aprile del 1987, quando l’autore conosciuto in tutto il mondo per il romanzo capolavoro sulla Shoah,
Se questo è un uomo lasciò questa terra. Al di là della forza attuale del suo pensiero e dell’ineluttabilità di un Paese che purtroppo sembra essere rimasto sempre uguale a se stesso, quel piglio critico da polemista di razza, si ritrova dall’inizio alla fine di un filone a torto trascurato della produzione leviana. Si tratta della grande stagione giornalistica di Primo Levi, pagine un po’ sommerse e ora salvate, rilette e approfondite, dal prezioso lavoro saggistico di Andrea Rondini (docente di Forme della comunicazione letteraria all’Università di Macerata).
Anche il cielo brucia (Quodlibet) è un compendio ragionato sugli elzeviri di Levi. Un approfondimento sugli editoriali e gli articoli di una delle maggiori voci del ’900 letterario e non semplicemente il «chimico-scrittore» o ancora peggio il «massimo testimone di Auschwitz». Rondini ricorda che ancora nel 1963 quando Levi vinse il Campiello con
La Tregua, lo scrittore torinese era praticamente sconosciuto al grande pubblico. La piena, quanto tardiva riabilitazione critica, avvenne di pari passo con la sopraggiunta popolarità, accresciuta proprio dagli articoli e dagli interventi che iniziò a pubblicare su «La Stampa» a partire dal 1974, poi su «La Repubblica» e altri periodici nazionali. Nel ’74, la Rai dedica tre serate all’autore di
Se questo è un uomo e nello stesso anno, in piena crisi petrolifera appare sulla pagina letteraria della domenica del «Corriere della Sera» il suo articolo «Tecnocrati e tecnografi». Pezzi esenti da ogni forma di pregiudiziale ideologica, ma impregnati di un socialismo umanitario: «Credo nella mutualità, nel bene comune e in un lento progresso verso un’era messianica». È in quest’ultimo passaggio che si dipana il suo giornalismo profondamente ed essenzialmente civile. Scritti sobri di illuminante eclettismo, passando sempre con autorevolezza da temi di scottante attualità politica, alla denuncia decisa e coraggiosa del terrorismo (da leggere con attenzione i pezzi sul «caso Moro», sull’assassinio dell’amico giornalista Carlo Casalegno e sulla questione israeliana-palestinese).Il suo essere ebreo non offuscava la lucida mente dell’opinionista, ascoltato e seguito, come nella raccolta delle firme dell’appello (apparso il 16 giugno del 1982 su «La Repubblica») per il ritiro delle truppe israeliane in Libano. Levi certamente mette al servizio della carta stampata anche le sue conoscenze scientifiche e lo fa per criticare lo scempio nucleare di Cernobyl, il vino killer al metanolo o la manipolazione genetica con gli esperimenti del ginecologo Raffaele Magli. Sulle pagine di «Tuttolibri» de «La Stampa» firma «Nelle vicinanze non si vede un nuovo Adamo», saggio per il quale verrà considerato uno degli anticipatori della realtà virtuale. È anche grazie al giornalismo se Levi abbandona la dimensione del lager e la sua esperienza concentrazionaria, della quale la regista Liliana Cavani sosteneva convinta, «fosse rimasto sempre là, nonostante tutto». Non è così. E la riprova sta in come Levi affrontò il caso Kappler: la fuga dall’ospedale di Regina Coeli, nella notte tra il 14-15 agosto del 1977, del boia nazista che aveva ordinato il massacro delle Fosse Ardeatine (335 ebrei trucidati). Non è solo l’ebreo ferito quello che chiede conto all’allora ministro della Difesa Vito Lattanzio, ma è prima di tutto il cittadino indignato che sottoscrive: «Si dimetta signor ministro, per pietà e per decenza, per carità verso il Paese, verso il suo partito, verso se stesso». Il ministro Lattanzio si dimetterà, ma ottenendo subito dopo il ministero dei trasporti e
ad interim quello della marina mercantile. Levi polemizzerà aspramente, ma usando un linguaggio mai sopra le righe e un
imprinting che Rossana Rossanda definisce «il codice Levi». Un codice intellettuale completo che dai suoi libri, fino all’ultima battuta tipografica, si è radicato nella nostra cultura, tanto da condurre al «ri-uso» di espressioni idiomatiche a cominciare dall’ormai proverbiale, «Se non ora quando?». Levi non parlava e tanto meno scriveva, con il linguaggio dell’odio e della vendetta, ma semplicemente quello puro della giustizia, mutuato dal confronto filosofico con i fraterni Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone: «La giustizia è giustizia». Nei confronti dello stesso Kappler e di tutti coloro che si erano macchiati dei delitti più efferati contro l’umanità, si era già espresso ne
I sommersi e i salvati e senza ombra di giustizialismo. «Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo e su cui la costrizione è stata massima». Da quell’ennesimo capolavoro letterario, nasce anche la poetica della «zona grigia» che permea tutta la dialettica leviana e che ha segnato in profondità un’intera generazione di giornalisti che va da Gad Lerner a Corrado Stajano, fino ad Adriano Sofri che scrive: «Il perimetro della zona grigia può infatti investire le aree dell’economia e delle aziende della finanza, della scuola, della programmazione televisiva, della bioetica».