Agorà

Letteratura. Sulle tracce di Primo Levi, scrittore di segni

Alessandro Zaccuri sabato 30 dicembre 2017

Primo Levi durante un’escursione sul Monte Rosa nel 1960

Per capire Primo Levi la letteratura non basta. E non perché l’autore di Se questo è un uomo non sia il grande scrittore che sappiamo e che lui stesso, a dispetto di ogni dubbio, ha sempre sentito di essere. Fin dall’inizio, quando arriva ad Auschwitz portando dentro di sé l’idea di quello che a distanza di anni diventerà “Carbonio”, il racconto finale di Il sistema periodico (1975). È, com’è noto, la storia del combinarsi e ricombinarsi di un atomo di carbonio, dal principio dei tempi fino al momento in cui, penetrato nei gangli nervosi di Levi, permette all’autore di fissare sulla carta il punto fermo con il quale, in apparenza, il libro si chiude. Ma se si accetta la vertiginosa verosimiglianza della ricostruzione proposta da “Carbonio”, allora bisogna ammettere che quell’atomo o, meglio, quel segno è ancora in circolazione, pronto ad aggregarsi agli altri segni di cui l’opera di Levi si compone.

Si tratta di un patrimonio non esclusivamente verbale, in coerenza con il mestiere di chimico professato da Levi con un orgoglio che sconfina nella dichiarazione di poetica. Lo si comprende rileggendo una delle interviste ora compresa, insieme a molto altro materiale spesso inedito, nell’importante numero monografico che la rivista Riga ha voluto dedicare a Primo Levi (a cura di Mario Barenghi, Marco Belpoliti, Anna Stefi; Marcos y Marcos, pagine 576, euro 35,00). Lì «quella chiarezza e a quella precisione che sono necessarie nei rapporti di laboratorio e di fabbrica» sono apertamente riconosciute come modello di una scrittura che ha da tempo superato i confini della mera testimonianza sulla Shoah per imporsi con forza anche a livello internazionale. Non è solo questione di metodo, ma di ricorrenze insistenti e di intime connessioni, riscontrabili per esempio nel “sistema dei nomi” indagato dall’italianista Giusi Baldissone in un saggio non casualmente intitolato L’opera al carbonio (Franco Angeli, 2016). Allo stesso modo, nel prezioso Album Primo Levi allestito da Roberta Mori e Domenico Scarpa per Einaudi (pagine 342, euro 60,00) a fianco dei numerosi e rari documenti iconografici relativi alla vita dello scrittore si incontrano una serie di elaborazioni grafiche appositamente realizzate per l’occasione. C’è una versione di “Carbonio” per immagini firmata dall’artista giapponese Yosuke Taki e ci sono i grafismi mediante i quali le espressioni tratte dall’opera di Levi vengono raffigurati sotto forma di «molecole verbali», come se letteratura e chimica, e dunque parola e materia, fossero una realtà inscindibile nel suo continuo articolarsi.

L’elemento grafico ha sempre giocato un ruolo rilevante nell’immaginazione di Levi. Nell’Album einaudiano incontriamo, per esempio, le schematiche piantine tracciate dallo scrittore per ricordare la disposizione dei campi di Fossoli e di Auschwitz, le sculture in filo di ferro raffiguranti i sempre amati e sempre misteriosi animali, primo fra tutti il gufo che Levi prova a stilizzare nei disegni al computer utilizzati per la copertina di L’altrui mestiere (1985). Del resto, che le immagini permettano di cogliere in modo più immediato la complessità dell’opera di Levi è un’intuizione di cui Marco Belpoliti si è servito in maniera sistematica nel suo Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015). Ma la rete dei riferimenti è ancora più ampia, come conferma il già ricordato numero di Riga, nel quale sono raccolti anche gli atti del convegno – svoltosi lo scorso anno tra Bergamo e Milano – che ha messo a fuoco i rapporti dello scrittore con l’etologia e l’antropologia: con lo studio del mondo animale, di nuovo, e con le strutture profonde dell’esperienza umana. Tra le quali, di primo acchito, non sembrerebbe figurare la componente religiosa, alla quale Levi si è sempre proclamato estraneo. Lo fa anche in un uno dei ritrovamenti più interessanti offerti da Riga, ossia la lunga intervista – mai precedentemente trascritta – rilasciata nel 1982 a Pier Mario Fasanotti e a Massimo Dini: «Non sono mai stato religioso, neanche i miei lo erano», afferma, salvo aggiungere che «ogni ebreo è sacerdote in casa sua e lo fa seriamente, ufficialmente in casa propria», fosse soltanto per rispetto alla tradizione.

Nonostante questo, nel lettore rimane il dubbio che il sistema di segni padroneggiato da Levi sottintenda un’inquietudine spirituale magari inespressa, ma non per questo meno rilevante. Ad avanzare e argomentare il sospetto sono stati di recente Paola Valabrega e Alberto Cavaglion, che nell’ottobre scorso anno dedicato la loro “Lezione Primo Levi” proprio alla presenza, «fioca e un po’ profana» del sacro in una manciata di testi tra cui spicca, una volta di più, la parabola sostanzialmente metafisica di “Carbonio”. E più di un indizio per ragionare criticamente sul ritratto convenzionale di un Levi incondizionatamente agnostico emerge, in effetti, anche dalla gigantesca biografia realizzata nei primi anni Duemila dallo studioso britannico Ian Thomson e finalmente portata in Italia da Utet con il titolo Primo Levi. Una vita (traduzione di Eleonora Gallitelli, pagine 816, euro 35,00). Thomson, che aveva incontrato Levi pochi mesi prima del suicidio avvenuto l’11 aprile 1987, si è concentrato in particolare sull’ambiente familiare dello scrittore, facendo emergere notizie altrimenti sconosciute o comunque non verificate in precedenza. Molti, come in un inquietante presagio, i suicidi che si susseguono già a partire dal 1888, anno nel quale a togliersi la vita è il nonno dello scrittore, il banchiere Michele Levi. E se fosse proprio questa la molecola impazzita contro la quale Primo Levi ha combattuto dentro e fuori dal lager?