«Essere parte del futuro dell’Egitto è stato grandioso, ma dobbiamo tenere gli occhi aperti per assicurarci che le regole della democrazia siano rispettate». A commentare così le storiche elezioni presidenziali egiziane di dieci giorni fa (il ballottaggio tra Mohamed Mursi e Ahmed Shafiq è ora previsto a metà giugno) è stato
Sphinx, degli
Arabian Knightz, gruppo rap cairota tra i più rappresentativi, nella schiera di quei musicisti militanti, che nell’ultimo anno e mezzo si sono trasformati in portavoce della voglia di cambiamento che ha travolto il mondo arabo. «Irhal, irhal», cantava la folla radunata in piazza Tahrir nei giorni della rivoluzione. Il messaggio al dittatore non poteva essere più esplicito: «Vattene, vattene!», gridavano i ragazzi sulle note di
Ramy Essam, mentre il musicista non esitava a guidare i cori issandosi, chitarra alla mano, sui palchi improvvisati in mezzo alla piazza. Non sorprende che gli sgherri di Mubarak l’abbiano arrestato e pestato duramente. Ma «Irhal, irhal» diventò l’inno della rivolta, e amplificò con successo il grido di rabbia e di esasperazione di un intero popolo. Certo, non è stata la musica a fare la Primavera araba. Ma non c’è dubbio che le note appassionate di rapper, cantautori e giovanissimi musicisti indipendenti, rilanciate sui social network e amplificate dal web, abbiano contribuito in misura notevole a creare un senso di unità e a neutralizzare la paura che attanagliava la gente, offrendo al popolo una voce per fare emergere il proprio sfogo. Nelle piazze, nei palazzi del potere ma anche ben al di fuori dei confini dei loro Paesi. Già alla fine del 2010, negli stessi giorni in cui il sacrificio del tunisino Mohamed Bouazizi si trasformava nella miccia della rivolta contro il regime di Ben Ali, il testo di
Raìs lebled scandito dal rapper di
Sfax El Général, che attaccava pesantemente il presidente, risuonava per le strade, da Sidi Bouzid a Tunisi. Anche in questo caso, il 21 enne musicista fu prelevato dalla polizia e sbattuto in prigione, con esiti tuttavia clamorosamente controproducenti, perché l’arresto di un ragazzino colpevole solo di rappare rime scomode richiamò l’attenzione del mondo sulla situazione ormai insostenibile in cui versava il Paese. Ma i regimi avevano ragione a tremare (oggi continuano a farlo in nuovi contesti) di fronte alla forza dirompente di un ritornello. Non importa se cantato a voce nuda da una ragazza dall’aspetto dolce (ma dalla tenacia eccezionale). «Io sono coloro che non hanno paura e sono liberi, sono la voce di chi non si arrende, sono i diritti degli oppressi. La mia parola è libera. Kelmti horra». Lo struggente canto di
Emel Mathlouti tra i manifestanti di avenue Bourguiba è oggi l’emblema di un’intera generazione. In cui le donne hanno molto da dire e da cantare. «Vogliamo il progresso, vogliamo imparare, vogliamo essere protagoniste e controllare le nostre vite», dichiara in
Woman la libanese
Malikah, mentre artiste come
Sabreena Da Witch e
Shadia Mansour sono la prova della vitalità dell’hip hop femminile palestinese. Ancora più diretta la marocchina
Soultana: «Lei vende il suo corpo perché voi lo comprate, e quando vi passa accanto vi comportate tutti da musulmani», attacca in un verso di
Sawt Nssa, mettendo sotto accusa le profonde ipocrisie del patriarcato in un Paese in cui, sebbene il sovrano Mohammed VI sia finora riuscito a tenere sotto controllo il malcontento sociale attraverso alcune riforme, le giovani generazioni scalpitano. Non a caso anche qui si è formato un movimento (del "20 febbraio"), che reclama un radicale rinnovamento politico e sociale. E, non a caso, anche qui i suoi cantori ne sono diventati simboli temuti. Come
El Haqed ("l’indignato"), 24 enne rapper operaio di Casablanca, che per i suoi testi sferzanti («siamo stufi di questo regime, vogliamo fare come gli egiziani e i tunisini») è stato incarcerato quattro mesi con accuse pretestuose. E, naturalmente, bandito da radio e tv e diffidato dall’esibirsi in pubblico. La tentazione della censura resta forte, sia nei Paesi che stanno sperimentando il dopo-rivoluzione, sia in quelli dove i regimi non sono ancora stati rovesciati. In Egitto, la storia del concerto
Voice of the streets, in cui qualche mese fa dovevano esibirsi artisti di punta della scena araba underground, dal palestinese
Boikutt al giordano
Dj Sotusura al "padrone di casa"
Deeb, è emblematica. Dopo che gli organizzatori avevano dovuto distribuire mazzette per ottenere tutte le autorizzazioni (come da migliore tradizione dell’era Mubarak), all’ultimo momento il Ministro dell’interno ha cancellato il concerto e minacciato di arresto chi non avesse accettato di sfollare… Alla fine, alcuni artisti hanno comunque suonato clandestinamente in un club davanti a 500 fans. Se le voci libere non cessano di impensierire l’establishment, a maggior ragione le dittature ancora in piedi non tollerano alcun sintomo di dissenso. E così, nella Siria dilaniata dallo scontro tra regime e oppositori, uno dei "martiri" più pianti è il giovane cantante folk
Ibrahim Qashoush, che nelle proteste notturne intonava cori anti-Assad nel tradizionale stile arada. Catturato dalle forze di sicurezza, è stato ritrovato assassinato, con le corde vocali recise. Anche la Libia del dopo Gheddafi resta un fronte caldo per i musicisti. Mentre la "primula rossa"
Ibn Thabit, attivissimo nel richiamare il popolo alla ribellione contro il raìs, ha abbandonato le scene non appena il dittatore è caduto, un rapper della nuova generazione,
MC Swat, è oggi il "cane da guardia" dell’attuale governo, dalle forti tendenze oscurantiste e antiliberali. «Se dici che chi ha un’opinione diversa dalla tua è un traditore, puoi dire addio alla libertà», attacca in
Freedom of Expression. Insomma, il ruolo dei musicisti (come quello degli artisti in generale) è più che mai urgente in un mondo arabo che sta cercando di trovare una nuova identità, democratica e moderna. «Il settarismo sta spargendosi, hanno seminato il razzismo», accusa il rapper egiziano
MC Amin, prendendo le distanze dalla "nuova" politica. «Ci hanno avvelenati e imbavagliati. Hanno pensato che ci avrebbero fatto tacere! Così ci hanno trovati. El thawra mostamera. La rivoluzione continua». La Primavera araba della musica non è ancora finita.