La prima alla Scala. Don Carlo, peccato e redenzione. Un inno di eterna resistenza
Una scena della prima alla Scala del “Don Carlo”, con l’ottima rilettura del maestro Riccardo Chailly e la regia cupa di Lluìs Pasqual
Arrotola uno striscione. La scritta «Free Palestine» fatta con la vernice, nera e pesante come il dolore, la intuisci, anche se il lenzuolo è quasi del tutto riavvolto. Sulla giacca a vento ha un fiocco rosso, rimasto lì da quando ha manifestato per dire «Basta!» alla violenza sulle donne. Arrotola uno striscione mentre piazza della Scala è ormai vuota. Diciotto anni, non di più. Arrotola uno striscione e lo rimette nello zaino, quello di scuola. Lo stesso con cui va spesso in piazza. Insieme a tanti suoi coetanei. A dire un desiderio di giustizia. Una necessità di pace.
L’ha appena detto, in musica, con le note di Giuseppe Verdi – e con le parole del libretto ispirato a Friedrich Schiller, lo stesso dell’Inno alla gioia della Nona di Beethoven, ideale di fratellanza che l’Europa ha (dovrebbe aver) fatto proprio – l’ha appena detto anche Carlo. «Sì, con la voce tua quella gente m’appella. E se morrò per lei la mia morte fia bella», parole (eccessive, certo, come tanti slogan che, però, scaldano il cuore) di un ragazzo che per i suoi ideali sfida il potere (tiranno) del padre, quel Filippo II che la Storia ci consegna come intransigente braccio politico della Controriforma. Una «voce», quella evocata da Carlo, che ieri si è sentita (ancora una volta, chiara, come solo l’arte sa renderla) al Teatro alla Scala che ha inaugurato la nuova stagione con il Don Carlo di Giuseppe Verdi, sul podio, ispiratissimo e ben assecondato da orchestra e coro, Riccardo Chailly, regia di una cupezza incombente di Lluís Pasqual. Prima salutata da 13 minuti di applausi con qualche dissenso per Chailly e sonori «buu» all’indirizzo di Pasqual.
In palco reale, gettata alle spalle la polemica sui posti a sedere innescata alla vigilia dal sindaco di Milano Beppe Sala, il presidente del Senato Ignazio La Russa e la senatrice a vita Liliana Segre. In piedi, loro e tutto il pubblico, per l’Inno di Mameli salutato dal loggione con «No al fascismo» e «Viva la resistenza».
«Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte» canta qualcuno a voce piena, mentre altri fanno un video da postare subito sui social. «Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò». Parole che anticipano, a inizio serata, quelle che dopo quattro ore di spettacolo dirà Carlo. «Sì, con la voce tua quella gente m’appella. E se morrò per lei la mia morte fia bella».
La voce di popoli oppressi – nell’opera è quella dei Fiamminghi che chiedono la libertà a Filippo – la voce delle donne vittime degli uomini – Elisabetta, nella scena più drammatica dell’opera subisce una violenza da parte del marito, le mani al collo per aver osato dire di aver amato. Così la Prima della Scala, che anche quest’anno è andata in diretta su Rai1, ancora una volta ha parlato al nostro presente con un’opera del 1884 – sul leggio Chailly ha voluto la versione realizzata da Verdi proprio per Milano. Il giorno dopo l’annuncio dell’Unesco che il canto lirico diventa patrimonio immateriale dell’umanità come ha ricordato il sovrintendente Dominique Meyer in proscenio a inizio serata, ha parlato al nostro presente con Don Carlo, nuova tappa del percorso verdiano di Chailly, un percorso che ha il suo punto di forza nell’assoluta fedeltà alla scrittura (e a tutte le indicazioni) del compositore, che arriva nella sua immediata bellezza. Cupa, certo, perché Don Carlo (che per la quinta volta è in cartellone il 7 dicembre) racconta gli abissi dell’uomo, miserie e grandezze che non hanno tempo.
D’altra parte fuori, e per fuori si intende il mondo, non solo piazza Scala dove, come ogni anno, immancabili, manifestano i precari e i pacifisti, fuori il clima è cupo. Perché si combatte. E si muore. In Medioriente. In Ucraina. Si combatte e si muore (nel silenzio di tanti) in angoli remoti del pianeta. Fuori il clima è cupo, ma anche dentro c’è poca luce. Inizia (e prosegue, sino alla fine) cupo il Don Carlo di Chailly, magma di suoni che sembra aprire un buco nero, spalancare la porta degli inferi per un viaggio dantesco negli abissi dell’uomo.
Peccato e redenzione nelle vicende di Carlo, Rodrigo, Filippo, Elisabetta ed Eboli, uomini e donne che Chailly racconta nella sua lettura intima e tormentata dell’opera, fatta di colori bruniti, oro e bronzo, di abbandoni malinconici, velluto e seta, di tempi solenni e dal respiro ampissimo, di scatti di tempo che raccontano come in un cardiogramma sonoro i sentimenti dei personaggi. E tutti gli interpreti fanno propria questa lettura, aderendovi perfettamente con un canto modellato sulla parola, mai esibito, meditato e cesellato: Francesco Meli che è un impetuoso Don Carlo, Anna Netrebko una risoluta Elisabetta, Michele Pertusi un tormentato Filippo II (tormentato anche da problemi alla gola, ma ha stoicamente portato a termine la recita), Luca Salsi un appassionato e umanissimo Rodrigo, Elîna Garanèa una voluttuosa Eboli, Jongmin Park un autorevole Grande Inquisitore.
Inizia (e prosegue, sino alla fine) cupo il Don Carlo di Pasqual, raccontato come una serie tv in costume, di quelle che fanno record di ascolti, la Storia sullo sfondo, in primo piano gli uomini: lo spettacolo è quasi tutto in proscenio, le arie cantate sempre al centro della scena, le interazioni tra i personaggi centellinate, le masse schierate sempre in posizione oratoriale. Recitazione asciutta per un Don Carlo nero, illuminato da squarci di luce che ritagliano nella loro solitudine i personaggi, come in quadri di Velasquez (filologici i costumi del Premio Oscar Franca Squarciapino, le luci sono di Pascal Mérat). Un Don Carlo crepuscolare e notturno, intimo e introspettivo.
Inizia con una cerimonia funebre il Don Carlo di Chailly e Pasqual, che è un lungo piano sequenza di musica e immagini. Un flusso continuo che inizia e finisce con un abisso di morte. In orchestra una marcia funebre, sul palco un rito che vede i frati prendere scettro e corona dall’urna di Carlo V per incoronare, in fretta e senza clamore, Filippo II. Siamo nel chiostro del convento di San Giusto. E da qui non ci muoviamo per tutto lo spettacolo. Non si muovono i personaggi, fantasmi che popolano questo mausoleo di morti (lo disegna Daniel Bianco), un’imponente torre di alabastro che si apre e si chiude mostrando i vari luoghi dell’azione, sempre ecclesiali: nello studio di Filippo i sedili sono quelli di un coro ligneo, la scena dell’autodafé è tutta davanti ad un retablo d’oro sul quale, come icone di una grande pala d’altare, sono incastonati Filippo ed Elisabetta – e qui, mentre divampa il rogo degli eretici, Pasqual accende le luci in sala per tirarci dentro nello spettacolo. Un Don Carlo anticlericale quello annunciato dal regista spagnolo, ma di zampate, di graffi che lasciano il segno in questo senso non ce ne sono. Anche perché basta Verdi, cosa c’è di più forte se non la frase di Filippo «Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare»?
Anticlericale, Verdi, forse non ateo. Uomo di fede. Che significa speranza. Lo senti nel finale, illuminato da quella lama di luce che è il grido di Elisabetta, acuto, lunghissimo, «Oh ciel». Finale dove Pasqual, come da libretto, fa “rapire” Carlo da nonno Carlo V, la sua statua lo trascina negli abissi, ma non per portarlo all’inferno – lo ha già vissuto sulla terra, l’inferno di un amore non vissuto o di un ideale politico soffocato – piuttosto in quel «mondo migliore» che Carlo ha provato a costruire. Con Rodrigo, con Elisabetta, giovani in balia dei sentimenti, ma anche mossi da grandi ideali, per i quali sono disposti a scendere in piazza. Lo stesso «mondo migliore» che sogna quel ragazzo che, su una piazza della Scala ormai deserta arrotola il suo striscione. Lo mette nello zaino, quello di scuola, oggi pieno di ideali.