Agorà

Milano. La prima della Scala in era Covid: kolossal stellare e nazional-popolare

Pierachille Dolfini lunedì 7 dicembre 2020

Un momento della diretta Rai di "A rivedere le stelle", galà di stelle delle lirca con cui il Teatro alla Scala ha aperto la stagione 2020

Vuota. Come non era (quasi) mai capitato per un’inaugurazione di stagione. Tanto che fa un certo effetto addentrarsi nella platea, vuota e silenziosa, del Teatro alla Scala. Devi stare attento a dove metti i piedi, anche se il teatro ti sembra di conoscerlo quasi come casa tua. Ci sono le mezze luci. Che non sono, però, quelle che ogni volta che si sta per alzare il sipario annunciano l’inizio dell’opera. Sembrano quasi luci di servizio. Per non farti inciampare, appunto. Illuminano le telecamere spente, ancora nei palchetti. Una, appesa al braccio meccanico usato per le inquadrature dall’alto, è a mezz’aria sulla sala. Come il grande lampadario – che è lì da sempre, dal 1778 –, anche lui acceso solo a metà. Cavi e prese dappertutto, ma non portano corrente ai riflettori che restano spenti e puntati verso il basso. Si intrecciano, i cavi, tra i leggi dell’orchestra, ancora posizionati sulla pedana nera costruita sopra le poltrone di velluto.

Silenzio nel pomeriggio (solitamente chiassoso di giornalisti e pubblico vociante) di Sant’Ambrogio al Teatro alla Scala. L’orologio, che continua a macinare minuti, segna le 16.45. Qui nemmeno un’ora prima c’era uno studio televisivo con telecamere e microfoni – per ultimo si è registrato il duetto che chiude il primo atto di Valchiria di Wagner, poi tagliato per non sforare i tempi televisivi. Telecamere e microfoni che ora sono a riposo dopo aver mandato, per una settimana, immagini e suoni ai camion regia parcheggiati sulla piazza. Perché sino all’ultimo si è registrato A riveder le stelle il concerto che Rai 1 ha trasmesso oggi pomeriggio dalle 16.45 per oltre tre ore, senza interruzioni pubblicitarie, per questo Sant’Ambrogio a porte chiuse e in formato tv. Il Covid ha messo il pubblico fuori dai teatri. E la Prima del 7 dicembre è andata sul piccolo schermo e via streaming: un concerto al posto della prevista Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. Montata, in regia sino all’ultimo minuto.

Parte la diretta. Sono le 16.50. E il sipario, chiuso sino ad allora, si apre. La voce di Mirella Freni che intona L’umile ancella dall’Adriana Lecouvreur di Cilea, le immagini del Duomo e della Madonnina, della Galleria e del Piermarini con i laser tricolori riempiono la sala. E in qualche modo si ripete il rito del 7 dicembre. Per pochi. Il sovrintendente Dominique Meyer e i suoi collaboratori nei palchetti. In platea, dove sino a poco prima ha suonato l’orchestra, ci sono alcuni giornalisti, in una sala stampa (sul modello di quella di Sanremo, per uno show tv che un po’ strizza l’occhio al festival) allestita tra i leggii che fanno da piano di appoggio per computer e tablet.

Si scrive, si racconta in diretta la Prima tutta registrata. Effetto straniante e inaspettato essere, ancora una volta, in platea alla Scala per un 7 dicembre. L’Italia segue l’inaugurazione scaligera in tv, lo fa anche Riccardo Chailly che, posata la bacchetta e tolto il frac, è tornato subito a casa. In teatro, invece, il concertone arriva sul megaschermo che il regista Davide Livermore (alla sua terza inaugurazione dopo Attila e Tosca) ha messo sul palco facendo scorrere immagini e suggestioni pittoriche che hanno raccontato visivamente la musica. E in qualche modo, il rito si ripete. Anche a porte chiuse.

Si parte, come ogni Prima, con l’Inno di Mameli, prima recitato (Maria Grazia Solano indossa la divisa dei macchinisti del teatro e ha in mano uno spazzolone) e poi cantato dai coristi nei palchetti, per dire, per provare a dire, che «l’Italia s’è desta». Deve farlo con la musica, patrimonio tutto italiano che scorre sullo schermo in un concerto/spettacolo lungo 150 minuti. Le note del preludio di Rigoletto che evocano il tema della maledizione, Luca Salsi lancia la maledizione del Gobbo, Cortigiani vil razza dannata, su una distesa d‘acqua, una palude immobile. Segni e rimandi a un presente dove la pandemia sembra impantanare il mondo nella drammaturgia di Livermore. Che ha usato tutti gli spazi del teatro, dal retropalco al foyer, dalle scale di servizio al palco reale, per un racconto pensato per fare da raccordo tra le arie che diventano numeri di un varietà tv, tra parole (affidate a Massimo Popolizio e Laura Marinoni) e musica.

Un po’ di sana retorica nazionalpopolare, un po’ di denuncia politica (la Casa bianca in rovina sul Credo che nel verdiano Otello canta il cattivo di turno, Jago, il baritono Carlos Alvarez) e sociale (con Michela Murgia che spiega come Tosca sia una storia da #metoo – Robert Alagna è tornato alla Scala dopo l’addio in scena nell’Aida del 2006 ha cantato E lucean le stelle). Tanto cinema con il Fellini di La strada per la Furtiva lagrima (la canta Juan Diego Florez) o i rimandi a Hitchcok sul verdiano Ballo in maschera (le arie sono affidate a Eleonora Buratto, Francesco Meli e George Petean). L’arte con Delacroix su Andrea Chénier (Sonya Yoncheva canta La mamma morta come la Libertà che guida il popolo, Placido Domingo il Nemico della patria davanti a microfoni da dittatore sudamericano) e con Jack Vetteriano per la coreografia che accompagna Lisette Oropesa che canta Lucia di Lammermoor.

Alle 18.58 arriva Roberto Bolle che danza tra fumo e laser. Si corre verso il Tg 1 delle 20 con il Nessun dorma della Turandot di Puccini (doveva cantarlo Jonas Kaufmann che, indisposto, ha ceduto l’aria a Piotr Beczala) e, preceduto da Livermore che ricorda il concerto con il quale Toscanini riaprì la Scala dopo i bombardamenti l'11 maggio 1946, il finale del Guglielmo Tell di Rossini. «Tutto cangia il ciel s’abbella» e sullo schermo tornano le immagini di Milano dall’alto con la Madonnina illuminata. In sala parte l’applauso. Si riaccendono le luci. Si apre una porta laterale. La Scala torna vuota. E silenziosa. Si torna nella notte, con sguardo all’insù. Con la speranza di riveder le stelle.