Natale. Giacomo Poretti: cosa s'impara facendo il presepe
Il racconto di Natale di Giacomo Poretti cosa si impara facendo il presepe
Il mio papà ha sempre fatto il presepe, il primo che ricordo quando avevo cinque anni. Si cominciava il giorno dell’Immacolata Concezione, l’8 di dicembre, e si finiva una settimana dopo. Sette giorni, proprio come il tempo impiegato da Dio per creare la terra. Appena il papà arrivava con lo scatolone dalla cantina, la mamma cominciava a urlare dicendo che per prima cosa bisognava ricoprire di carta di giornale il mobile dove si sarebbe fatto il presepe. Non si poteva sbagliare: avevamo un solo mobile in sala, quello che conteneva i bicchieri piccoli da liquore e due bottiglie di superalcolici da servire solo in occasioni eccezionali tipo cresime o battesimi, una di Fernet Branca e l’altra di Vecchia Romagna etichetta nera. Messo in salvo il mobile, il papà cominciava la sua opera d’arte: le prime cose che realizzava erano le montagne, le quali magicamente comparivano dopo aver avvolto con la carta apposita verde e marrone le scatole delle scarpe o il dizionario; le dune del deserto il papà le faceva con la sabbia del gatto, il laghetto con il vetro dello specchio da barba; poi c’è stato l’anno che hanno inventato il domopak e finalmente siamo riusciti a fare anche le cascate: io non avrei mai smesso di lavorare quella carta di alluminio, infatti un anno avevamo la parete tutta ricoperta di domopak e il prete, quando è venuto a benedire, ha chiesto cos’era: io ho risposto «le cascate del Niagara ». Verso le 11 di sera, dopo aver costruito il ponte sul laghetto, esausti, si andava a dormire. Il mattino successivo il papà cercava le sue scarpe per andare al lavoro e poi si accorgeva che le aveva avvolte dentro la montagna del presepe, allora amaramente si rendeva conto gli toccava andare in giro fino all’Epifania con i sandali aperti dell’estate. Forse è per quel motivo che al mio papà durante le feste natalizie veniva spesso il raffreddore.
Comunque, il secondo giorno si andava a staccare il muschio che cresceva sulla corteccia dell’albero del vicino (all’epoca esistevano ancora gli alberi e il muschio non lo vendevano in cartoleria), e lo si stendeva attorno al paesello arroccato sulla montagna; il mio papà tendeva a costruire il paesello con quello che aveva, inevitabilmente il risultato era un insieme di e- poche e stili diversi: una baita, un castelletto, una villetta a schiera, un grattacielo fatto con il Lego.
Il terzo giorno era quello dedicato agli animali, mettevamo galline, tacchini e pecorelle e al massimo uno o due cammelli: dipendeva dalla disponibilità che aveva la cartolaia da cui ci servivamo. Il giovedì era il giorno in cui si disponevamo le statuine dei pastori, le donne con la brocca in testa, il cammelliere che dormiva sotto la palma, quello che con le mani cercava la stella cometa nel cielo, il tagliaboschi con la scure mentre tagliava i tronchi, un pompiere dei Playmobil, qualche cowboy e indiano, la contadina che teneva in mano una tunichetta da regalare al nascituro, gli zampognari e un clone di Guerre stellari. Una folla eterogenea e variegata, che dava la sensazione di non essere a Betlemme, in Palestina, dove era accaduto quel fatto storico, ma in un luogo strano, un paese, un mondo, che sembrava contenere tutti mondi. Forse ogni presepe, compreso quello del mio papà, vuole dire proprio questo, che quel fatto avrebbe potuto accadere in ogni angolo della terra, che quel bimbo nato nel posto più sfigato del Medio Oriente avrebbe potuto nascere ovunque: a Betlemme, a Norimberga, o nell’Alto Milanese dove abitavamo noi, a Sydney, Pechino, Mosca e perfino tra gli eschimesi. Il presepe ha senso solo se ci sono gli attori principali, il resto è relativo, la scenografia può variare, l’ambientazione pure. E il mio papà questa cosa la sapeva da sempre, non c’era bisogno di fare il liceo artistico. Chiunque si accinge a fare un presepe, questa cosa la sa.
E poi arrivava il venerdì che era dedicato a fare il cielo. Dovete sapere che noi usavamo la carta lucida blu scuro con le stelle dorate che incollavamo al muro con lo scotch, il quale non stava mai attaccato, ma questo era un dettaglio insignificante che faceva molto irritare solo il mio papà. Il sabato era il giorno più emozionante, era quello destinato alla capanna e alle statuine più importanti. Il capo cantiere, il papà, e la mamma le svolgevano dalla carta di giornale dove erano state avvolte per tutto l’anno: il bue, l’asino, san Giuseppe con la barba e la faccia triste. Io chiedevo chi fosse e la mamma, omettendo imbarazzanti spiegazioni, rispondeva: «Il papà di Gesù bambino». Poi mi mostrava la statuina della Madonna e mi diceva: «E questa è la sua mamma!». La mia, di mamma, invece avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, poi si guardava negli occhi con il papà e decideva che non era ancora il caso di avventurarsi nella storia della verginità di Maria, l’avrebbe fatto fra due o tre presepi. Nell’ultimo pacchetto di carta c’era Gesù bambino che aveva indosso solo un panno che gli lasciava le braccia e le gambe nude; io avrei voluto sistemarlo subito nella mangiatoia, ma mamma e papà tentavano di spiegarmi che nasceva tra venti giorni, a Natale; io replicavo che «se era già lì non aveva bisogno di nascere». Alla fine si arrivava ad un compromesso e la statuina di Gesù bambino sarebbe rimasto al caldo nel cassetto delle calze fino al giorno di Natale. Siccome quello che c’era da dire in quel momento era delicato e importante, prendeva la parola il papà: «Gesù bambino… è il figlio di Dio!». «Figlio di Dio? Papi, ma sei fuori? Ma non era san Giuseppe il suo papà?».
Mi ha sempre intenerito e interrogato la figura di san Giuseppe, ho passato un sacco di tempo a domandarmi perché nessuno andava da lui a offrirgli un bicchiere di spumante dato che era appena diventato papà. E poi questo bimbo, di chi era figlio per davvero? Il mistero cominciava ad aleggiare sopra il presepe, quando i miei genitori dicevano: «Ah, poi ci sono anche loro». «Loro chi?». La mamma estraeva dalla carta gli ultimi tre personaggi. «Questi sono i Re Magi – spiegava il papà – ma non vanno messi adesso perché arrivano il giorno dell’Epifania». E io replicavo: «Ma all’Epifania non arriva la Befana? ». Lì partiva una lunga, articolata e confusa spiegazione teologica da parte dei miei genitori, che non ha mai chiarito definitivamente ad un bambino di cinque anni chi riempiva la calza di dolci e frutta secca la mattina del 6 di gennaio, se la Befana, i Re Magi o la nonna. Finalmente quel mattino si mettevano le ultime statuine sul presepe: erano le più eleganti nel portamento, vestite bene, avevano proprio l’aria di signori importanti. Come allora, quando ero bimbo, non ho mai smesso di chiedermi da dove venissero, che mestiere facessero, se è vero che erano astronomi, scienziati per modo di dire, persone colte, forse addirittura regnanti essi stessi. E che cosa li aveva spinti a muoversi dalle loro lussuose abitazioni – chi gliel’aveva fatto fare di intraprendere dei viaggi così lunghi? – perché a giudicare dall’aspetto provenivano da tre nazioni diverse, anche per il colore della loro pelle; e poi, si conoscevano? Strano, sono anche raffigurati di tre età differenti. Si saranno trovati per strada o si erano dati appuntamento? Che so, uno parte da Norimberga, un altro parte da Bagdad, il terzo, quello nero, non può che venire dal Senegal... Cosa avranno detto? «Ci incontriamo ad Aleppo»? Mah!
Nella mia idea si son trovati lì, nei pressi della capanna, e hanno incominciato a parlarsi: «Mah… mi sentivo inquieto, di notte non dormivo… faccio faccio ma mi sembra sempre che manchi qualche cosa…». «Io invece ero inquieto anche di giorno, mi chiedevo perché facevo quello che facevo… ». «Io invece non so di preciso perché sono in cammino, so soltanto che non riesco a staccare gli occhi dal cielo… ». Saranno stati anche più di tre, cento, forse migliaia, una specie di Woodstock di inquieti, che non sapevano nemmeno loro cosa erano lì a fare, cosa stavano aspettando, lì in un posto più sfigato dello slum di Mumbai, più desolante dei sobborghi di Los Angeles, più tetro delle banlieue parigine di notte, tutti quanti, quelle migliaia di persone, a confessarsi reciprocamente che sentivano una mancanza dentro al cuore, una malinconia senza posa, una nostalgia di una casa che non avevano ancora abitato. E allora quei tre siamo tutti noi, che vaghiamo per le giornate in attesa che il nostro cuore si plachi in una luce. Ma poi perché quei tre vanno a trovare, meglio a omaggiare un bimbo che è venuto al mondo in una catapecchia? Metti anche che si siano mossi da tre punti diversi del pianeta perché dovevano andare ad inchinarsi ad un magnate, un professorone, a prostrarsi di fronte ad un capo di Stato come loro: una volta arrivati lì si sarebbero accorti dell’equivoco. E invece si fermano lì, addirittura portano dei regali preziosissimi come l’oro, perché è il dono riservato ai Re e Gesù è il Re dei Re; l’incenso, come testimonianza di adorazione alla sua divinità, perché Gesù è Dio; la mirra, usata nel culto dei morti, perché Gesù è uomo e come uomo mortale.
Chissà cosa avranno provato Gaspare, Melchiorre e Baldassarre nel vedere quella mamma che mostrava loro il suo bimbo? E si saranno accorti che in quel momento il nitore della luce che scaturiva proprio nel mezzo della scena, la luce accecante della mamma, figlia di suo figlio, e del corpo del bimbo, scoloriva tutto il resto? Avranno percepito che la semplice luce della coppia mamma e figlio si impone su tutti i colori sgargianti e alteri degli abiti e delle pietre preziose? Quella è una luce per tutti, percepibile anche dai daltonici. Sì, penso che se ne siano accorti, infatti come interpretare quel gesto di donazione se non come un gesto di spoliazione di tutto quello che di importante pensiamo di aver fatto, costruito e pensato fino a quel momento? Se ne sono accorti, i Magi, perché sui loro volti si legge il rapimento operato da quella semplice eterna luce che sgorga dal centro della scena, e tutto intorno le case e i palazzi possono crollare, i cavalieri possono armarsi, ma loro finalmente hanno trovato la risposta alle loro inquietudini.
Il 7 gennaio, nel tardo pomeriggio, quando tornavo dall’asilo, il presepe non c’era già più, tutto era stato inscatolato per l’anno prossimo, il mobile ritornava ad essere agibile e il mio papà finalmente guariva dal raffreddore: aveva potuto rimettersi le scarpe.