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Festivaletteratura. Hon: «Con la gamification il gioco invade le nostre vite»

Gianni Santamaria venerdì 6 settembre 2024

Adrian Hon

Quando Adrian Hon, scrittore, programmatore di videogiochi e neuroscienziato inglese, andava a a scuola c’erano insegnanti che mettevano un sassolino in un barattolo se lo studente dava una risposta giusta. Un modo materiale per quantificare e far vedere allo studente il progresso, per motivarlo. Mentre i videogiochi a cui giocava davano come premio per un risultato raggiunto un distintivo da attaccare alla giacca, richiesto per pista. Preistoria. Oggi negli Usa esiste un’app attraverso la quale gli insegnanti inviano in tempo reale all’istituto “voti” sui comportamenti negativi - distrazione, turbolenza, troppe assenze per andare in bagno - e questo a sua volta ai genitori, molti del quali si sentono soddisfatti perché hanno il controllo.

Questo è solo un esempio della corsa alla quantificazione di ogni aspetto della vita e all’introduzione, ben al di là dei videogiochi, come in molti social e app, dei meccanismi premio-punizione. Si chiama gamification ed è un fenomeno su cui Hon riflette da tempo e sul quale ha scritto La società della ricompensa (Luiss). In realtà di gioco in questi meccanismi c’è poco. Hon, che è un esperto e un appassionato di videogiochi, non intende demonizzarli. Il suo tentativo, al centro giovedì 5 settembre a Mantova di un incontro dal titolo ”Gamification, il gioco ci è sfuggito di mano”, è piuttosto quello di svelare genesi e meccanismi di questo fenomeno che ha da tempo travalicato il mondo della consolle e si è trasferito nelle nostre tasche attraverso gli smartphone. A stimolarlo con le sue domande il giornalista e scrittore Cesare Alemanni. Il quale ha subito messo in campo la strategia di un social dedicato a professioni e ricerca di lavoro che ti suggerisce di dare più informazioni in modo da avere più chance di trovare l’agognata occupazione. Con questo sistema il mondo ludico fa gli interessi di corporation e dei governi che maneggiano quello che è l’oro dei nostri tempi: i dati. La gamification si applica ormai a tutto: dalla fitness, ai corsi di lingue, ma anche al lavoro, indicendo una competizione tra addetti e una migliore disposizione a lavorare di più e più velocemente. Un meccanismo sperimentato da aziende di trasporto o di grande commercio on-line.

La gamification può avere effetti postivi o negativi. «I primi riguardano ad esempio il raggiungimento di obiettivi di allenamento o l’apprendimento di lingue difficili come il giapponese, attività nelle quali divertirsi può essere utile anche se non assicura il risultato». Il problema subentra quando la sensazione positiva della gratificazione induce i lavoratori di una fabbrica, ad esempio a lavorare di più o a rinunciare alla pausa pranzo. Un fenomeno che ha preso molto dai meccanismi dei giochi di azzardo, per cui l’utente è spinto - in alcuni sottogiochi contenuti in videogiochi che vanno per la maggiore - a comprare pacchetti, per smania di collezionismo o per accelerare i progressi. Ma non è stato sempre così. «Il mettere dei traguardi e degli incentivi, che c’è sempre stato anche prima dei videogiochi, aveva due elementi utili. Il senso di fare progressi e il trovare delle maniere nuove, creative per giocare. Ad esempio cercare di vincere a un gioco violento senza uccidere nessuno». Gioco per il gioco come dovrebbe essere. Ma la situazione è decollata, esplosa, negli anni Novanta e primi Duemila, quando aziende come Microsoft o Sony hanno iniziato a integrare i traguardi in un sistema unico, che ha portato alla ricerca di vincere di più per ottenere le gratificazioni. A scapito del gioco. «In Assassin’s creed gli sviluppatori hanno iniziato a inserire centinaia di missioni, mi sono sentito male e non è divertente», spiega lo studioso e appassionato. Così si è inserito il business miliardario, a cui si assiste in altri giochi, a tema calcistico o sparatutto: se paghi ottieni pacchetti di giocatori o armi e fai meno fatica.

Dietro c’è un problema di capitalismo sregolato e di disastro educativo che Alemanni ha sottolineato. Dietro si affaccia una visione dell’uomo come essere deterministicamente programmabile, «come una cavia di laboratorio », ha detto il giornalista invocando la corrente psicologica del comportamentismo. Questo in realtà sarebbe scientificamente superato, ha confermato Hon. «Ma non è una sorpresa che la gamification sia nata nella Silicon Valley, dove ci sono ingegneri che credono nel comportamentismo» come tentativo di modificare il comportamento delle persone».

Le applicazioni sul lavoro poi sono molteplici, portando a un vero e proprio taylorismo. Tassisti di Uber o magazzinieri di Amazon sono incentivati a lavorare più velocemente grazie a gratifiche come e-badge, pokemon, storytelling rinforzativi, hanno ricordato i due protagonisti dell’incontro, molto seguito e partecipato. «Se un tempo - ha detto Hon - il capo ti gridava di lavorare di più e potevi non starlo a sentire, ora è il gioco a dirti di lavorare di più. E in questo caso non è il capo che si arrabbia con i lavoratori, ma questi si arrabbiano con loro stessi perché non riescono a raggiungere il traguardo. La gamification non è giusta».

Ma qualcosa sta cambiando negli Usa. Come dimostrano post sui social in cui i lavoratori mettono sotto gli occhi di tutti le trappole di cui sono oggetto. Siamo a un cambio di paradigma verso una società post-industriale o post-lavoro? «La gamification è un fenomeno post-moderno, ci sono persone che considerano se stesse giocatori e gli altri non-giocatori». E da un punto di vista lavorativo è ancora tutta nel taylorismo, nella ripetitività. Se ci sarà una nuova rivoluzione industriale, questo lo vedremo, ma certo ci saranno nuovi problemi da affrontare. Anche di più se si pensa all’AI. Dietro tutto ciò c’è una nuova (ma neanche tanto) organizzazione del lavoro, che si unisce ai molti altri problemi. Come quelli del controllo sul posto di lavoro, reso più facile dalla maggiore accessibilità economica di strumenti come Gps e telecamere. Ipotesi di controllo che hanno fatto rievocare le prassi biometriche adottate in Paesi come la Cina. Per molti Stati la gamification spesso è una scusa.

Tornando alla scuola, su cui Usa e Ue si stanno muovendo per limitarla: «Ho parlato con molti genitori e non tutti sono per il controllo. O meglio lo vedono come soluzione per le scuole in situazioni critiche. La gamification è allora usata per cancellare problemi estremi, non essendo in grado di rimuoverne le cause». È per questo che i cittadini dei Paesi democratici dovrebbero farsi sentire con i propri rappresentanti politici.