Il premio Nobel per la letteratura 2024 viene assegnato all’autrice sudcoreana Han Kang – in Italia pubblicata da Adelphi – «per la sua intensa prosa poetica che affronta traumi storici ed espone la fragilità della vita umana». Nella sua opera, prosegue la motivazione dell’Accademia svedese, «Han Kang affronta traumi storici e insiemi invisibili di regole. Ha una consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, vivi e morti, e nel suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice nella prosa contemporanea».
Questo è un periodo storico felice per la letteratura asiatica; non è certo un caso, infatti, che tra le favorite per la vittoria finale del Nobel – di cui si era parlato negli ultimi giorni – ci fossero anche l’autrice cinese Can Xue e la scrittrice giapponese Yoko Tawada. Han Kang invece è nata nella città sudcoreana di Gwangju nel 1970, prima di trasferirsi con la famiglia a Seul a nove anni. Proviene da un ambiente letterario: suo padre infatti è un rinomato romanziere che – come è specificato sulla Digital Library of Korean Literature – «scrive principalmente di persone che lottano contro il proprio destino».
Han Kang inizia con la poesia nel 1993, passa alla prosa nel 1995, con una raccolta di racconti. Il successo internazionale arriva con il romanzo La vegetariana (2007), vincitore anche del Man Booker International Prize nel 2016. L’ultimo romanzo pubblicato in Italia è stato L’ora di greco (2023), snodo importante per comprendere – attraversandone la lettura – la presenza di alcuni temi centrali per l’autrice, tra cui l’importanza della parola e del linguaggio.
Riguardo la scrittura, infatti, Han Kang in quasi tutti i suoi testi mostra interesse per situazioni di vita estreme, raccontate attraverso uno stile metaforico, spesso poetico, scabro, essenziale ma carico di una sorta di fisicità, composta di frasi concise, periodi brevi, testi scolpiti nella precisione delle descrizioni, vive, originali, corporali nella capacità di creare una sorta di stimolazione sensoriale, anche e spesso di stati d’animo interiori collegati al malessere. L’opera di Han Kang – lo descrive bene il sito del Nobel – è caratterizzata da una doppia esposizione del dolore, una corrispondenza tra tormento mentale e fisico, con stretti legami con il pensiero orientale.
Un’altra caratteristica fondamentale dell’autrice è quella di muoversi tra immagini inquietanti, oniriche e un’inclinazione naturale alla letteratura testimoniale, al perseguimento della verità. Questo emerge per esempio in Atti umani, dove l’autrice racconta l’eccidio di Gwangju, dove lei stessa è cresciuta e dove centinaia di studenti e civili disarmati sono stati uccisi durante un massacro compiuto dall’esercito sudcoreano nel 1980; il fatto, a lungo censurato e nascosto alla comunità internazionale è raccontato da Han Kang con lucidità straziante, dando un nome alla violenza per capire meglio e più acutamente le cose, per rileggere la storia e le sue atrocità in una dimensione etica, proponendo in modo innovativo uno dei grandi temi del Novecento, ovvero quello del dolore e del male, oltre alla perdita di umanità che caratterizza le dittature. Fulvio Panzeri su queste pagine, nel 2017, parlava di Atti umani come di «un viaggio di ricerca su tutti i documenti che riguardano quella strage, fino a decidere di scrivere un romanzo in cui, a partire dalla figura di un adolescente, Dong-ho, e del suo sacrificio, ripercorre quel momento di cecità morale, in una dimensione corale che alterna voci e protagonisti, porta in scena i morti e la realtà dei sopravvissuti, ripercorre il dolore in una tensione che spesso raggiunge un aspetto epico. Le immagini desolate, terribili di quei giorni – continuava Panzeri – diventano parole, fanno rivivere l’orrore della palestra dove vengono sistemate le bare che non bastano mai, in una scrittura che si stratifica in un realismo che spesso sconfina nell’onirico», in una scrittura, quindi, che sa essere tanto visionaria quanto sintetica, puntuale. Per gli appassionati di storia, qualcosa di simile si può forse trovare, per affinità di prosa e di intenti, seppur siamo di fronte a tutt’altro lavoro, ne La storia politica della Grande Guerra di Piero Melograni, classico anticonformista della storiografia sul primo conflitto mondiale, nel quale lo storico utilizza i documenti degli archivi pubblici per studiare gli stati d’animo collettivi, concentrandosi su come la guerra fu vissuta dalle masse.
Tornando ad Han Kang, ne L’ora di greco vira su altri temi, raccontando di una donna che vive a Seoul e per via di alcuni traumi, improvvisamente, perde la parola «per una sorta di cortocircuito psicofisico»; e se «al linguaggio tanto si affida, può essere perché dalle parole si sente accolta e protetta molto più che dal mondo reale». Tuttavia, sono proprio le parole a darle maggiore speranza, è la lingua a fungere da rifugio in questo libro. «A un certo punto del romanzo – ha scritto Lisa Ginzburg su queste pagine – un terapeuta le suggerisce la chiave di interpretazione dello strano paradosso in cui lei sta impigliata, non disporre più di parole, e invece con passione instancabile andar dietro alle parole, rincorrerle, amarle. Può essere, le dice lui, che della corrispondenza tra il mondo e la sua dicibilità lei, la donna, si sia fidata poco, che abbia sentito instabile, ingannevole, il nesso tra il reale, e le parole che lo descrivono. elle parole possiamo rifugiarci quando nulla intorno è rifugio».
Le parole come rifugio, il linguaggio come accoglienza, come spazio, introducono La vegetariana, tra i suoi libri più di successo, scritto in tre atti che ritraggono le conseguenze che si verificano quando la protagonista Yeong-hye decide di non mangiare carne, venendo accolta da varie reazioni. In questo percorso di trascendenza distruttiva ed estatica dissoluzione, «le distinzioni – scrive Han Kang – sono confuse, i confini si erodono. La familiarità sfuma nell’estraneità, ogni certezza diventa impossibile. Solo la violenza è abbastanza vivida da rimanere». È in questo modo, con un esempio come questo, che si può spiegare la capacità della scrittura di Han Kang di restare addosso, aderire alla pelle interiore come un tessuto bagnato, procurando punte di brividi e malessere.
Tornando alle motivazioni del Nobel, la consapevolezza delle connessioni tra corpo e anima, vivi e morti, tornano in Convalescenza (2019), dove Han Kang tratta di un’ulcera alla gamba che non guarisce e di un rapporto doloroso tra la protagonista e la sorella morta. Anche qui il dolore emerge come esperienza esistenziale, è distraente, disturbante: «Batti le palpebre – scrive Han Kang – diverse volte e pensi che tutte queste sensazioni di dolore siano troppo deboli. Sottovoce preghi ripetutamente un dio, non importa quale, perché tu possa non guarire da ciò di cui soffri in questo istante, perché il suolo freddo possa diventare ancora più freddo, cosicché la tua faccia e il tuo corpo si ghiaccino completamente e tu non ti rialzi mai più».
Nelle prossime settimane Adelphi pubblicherà Non dico addio, il nuovo romanzo della scrittrice sudcoreana, l’ottavo, con la traduzione di Lia Iovenitti. Qui sarà raccontato – tra le altre cose – il Massacro di Jeju, uno dei massacri più infami che la Corea abbia conosciuto, quello perpetrato tra la fine del 1948 e i primi mesi del 1949, ai danni di trentamila civili accusati di essere comunisti. Ci sarà quindi, con tutta probabilità, anche in quest’opera un’altra prova della scrittura memoriale di Han Kang, della letteratura come testimonianza di un evento storico e politico, in una dimensione in cui visibile e invisibile privato sconfinano, pur restando salda l’atrocità della violenza. Questa traccia che resta è una delle cifre stilistiche di Han Kang e in qualche modo fa riflettere – per prossimità – l’influenza di un padre scrittore di «persone che lottano contro il proprio destino».
Con la vittoria del Nobel, ora, facilmente arriveranno in Italia anche gli altri libri di Han Kang, tra cui, in particolare si attende
The White Book, Il libro bianco, descritto come una specie di «libro di preghiere laico», nel suo sfiorare, ancora una volta, il mondo dei morti.