Milano. Il premio "Montale fuori di casa" a Marco Tarquinio
La premiazione di Marco Tarquinio
«Il merito di avere fatto avvicinare dal 2009, anno in cui è diventato direttore, sempre più persone alla lettura» di “Avvenire”, lo spazio «riservato alla politica estera, alla cultura e ai temi della spiritualità» ma anche i temi «legati al terzo settore e al volontariato», pagine in cui «si riconoscono tutte quelle persone che agiscono ogni giorno, in silenzio, per costruire una cittadinanza vera e per realizzare un mondo diverso e migliore».
Sono alcune delle motivazioni con cui oggi è stato conferito al direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio il premio “Montale fuori di casa” per la sezione “Giornalismo-Direttori di quotidiani”. La cerimonia, avvenuta nella prestigiosa Sala delle Accademie della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, è stata introdotta dalla presidente del premio Adriana Beverini, che ha esordito ricordando il montaliano Finisterre pubblicato nel 1943, silloge antitotalitaria che entra nel 1956 in Bufera, dove è vivo il ricordo della guerra. «Una bufera che per il poeta non è solo metafora dell’ultimo conflitto di una guerra cosmica, una condizione permanente. È ritornata in Europa la paura di una terza guerra mondiale. Non avevamo ancora smesso di soffrire per le immagini dei barconi carichi di migranti che ci ha sopraffatto l’angoscia per le donne e i bambini afghani e ora l’Ucraina. Come dice Montale, l’umanità non impara nulla dai propri errori. Ci siamo chiesti se fermarci, ci siamo risposti che non doveva trionfare il ritorno dell’homo homini lupus. Abbiamo scelto una forma di resistenza che in primis promuove la cultura della pace. Nel segno delle parole di papa Francesco: “per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che fare la guerra”. Un coraggio che vediamo nelle pagine di “Avvenire”».
Un’introduzione a cui ha fatto eco il presidente della “Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti" Arnoldo Mosca Mondadori. «Ricordo quando madre Teresa disse che l’aborto è una delle cause della guerra, in mezzo agli sguardi imbarazzati. I profeti vanno controcorrente, hanno uno sguardo più lungo della storia. Marco Tarquinio in questo momento storico è una voce di profezia nel giornalismo. È deplorevole quello che sta accadendo nel mondo della comunicazione. Sono felice che riceva questo premio perché in queste ore sta lottando da solo nell’arena mediatica con la mitezza delle Beatitudini».
Tarquinio ha quindi dialogato con il giornalista e scrittore Alessandro Zaccuri, direttore della Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Una conversazione amichevole, frutto di un rapporto trentennale, che ha spaziato dalla natura e la storia di “Avvenire”, dove Tarquinio è arrivato nel 1994, al presente della guerra. «“Avvenire” è un giornale come tutti e più difficile di tanti altri. Quando sono arrivato non sapevo se ne sarei stato all’altezza, ci ho messo poco a capire che ero in un posto diverso dagli altri, una redazione come una famiglia e una comunità di lavoro. Un giornale con un rispetto profondo dei fatti e una relazione stretta con i lettori: da sempre. E poi una propensione, che ho cercato di accentuare nella mia direzione, a raccontare il lato chiaro della storia. E infine la preferenza per gli ultimi: l’unica parte dalla quale non ci si vergogna è quelle delle vittime».
Zaccuri è tornato quindi agli anni 90, «quando i giornali erano centrali e l’assetto del Paese stava cambiando: sembrava una crisi interna della democrazia, si è rivelata un assalto alle istituzioni. Che paese hai visto cambiare in questi 13 anni da direttore?». «Ho visto – ha risposto Tarquinio - il passaggio brusco da case politiche, con i loro difetti ma con ideali chiari di riferimento che abbiamo confuso con le ideologie e che io invece chiamo “pensieri lunghi”, a un analfabetismo politico e un bipolarismo furioso: e lo vediamo bene in questi giorni. Il populismo, che speravo essere una fase transitoria del mio Paese, si è esteso. L’ondata nazionalsovranista si sta rialzando con il riarmo. Da europeista convinto penso all’Italia dentro il continente. Nessuno degli Stati europei tra dieci anni avrà dimensioni adeguate rispetto al campo globale. Solo l’Europa unita avrebbe la massa critica. E saremmo l’unica area del mondo che si è integrata nelle differenze».
Si è poi entrati nel tema vivo della guerra e il senso di ineluttabilità dello scontro che sembra pervadere la società: «La gente vive questo conflitto con il sospetto che possa non finire mai. Una Siria europea», ha detto Zaccuri. «Lasciatemi fare una citazione montaliana: “la più vera ragione è di chi tace / il canto che singhiozza è un canto di pace”. È quello che io e pochi altri, in una narrazione ingaggiata in un conformismo bellico che toglie la voce a tanti colleghi, cerchiamo di dire. La guerra non è mai eroica, è sempre tragica. Sta diventando difficile parlare. In Siria ci sono 500 morti al mese. I 330mila morti della Yemen quanto ci emozionano? E molti sono bambini. “Avvenire” scrive da decenni che le sanzioni sono un’altra forma di bombardamenti perché legano i popoli ai dittatori. I primi ad averlo imparato sono stati gli italiani nel 1938 con le sanzioni che cementarono il consenso intorno a Mussolini». Ma la pace è una forma di realismo: «Come si sovverte la logica della guerra? Si fa anche con le scelte personali che diventano collettive. Una difesa non violenta attiva di fronte al male. Utopia? Forse ma non c’è altra strada. L’alternativa è il fucile. Servono leader politici, qualcuno che abiti la casa della non violenza e cambi la logica della guerra. Mandela in Sudafrica non ha guidato nessuna rivoluzione armata ma ha abbattuto l’apartheid con la non violenza».
Tarquinio ha quindi ricordato il magistero dei papi: «Io credo davvero che dobbiamo costruire un alfabeto comune dell’umanità. Un alfabeto che ha continuato ad abitare nelle parole di pontefici che hanno attraversato il Novecento, un tempo violentemente tragico. Sono loro che hanno ricordato la pienezza del dono della pace, l’unico denso di futuro. Papi che hanno avuto il coraggio di chiedere pienamente e liberamente perdono. La consapevolezza cambia il mondo. Significa abitare il tempo, solo così costruisci il domani e non lo subisci. Un giornale, se serve, deve servire a questo».