Agorà

Antropologia. Pregare, un atto umano. Che è sempre un dialogo vero

Franco La Cecla martedì 26 marzo 2024

Donna in preghiera, Birmania

La preghiera è un fatto di credibilità, sia di chi la invoca, sia, per quanto sembri strano, anche da parte di Dio, che pretende dall’uomo quell’umiltà che deve risultare all’altezza di ciò che chiede. Si tratta di Convincere Dio. Note sul pregare, l’ultimo libro di Franco La Cecla che esce ora da Einaudi e di cui proponiamo un’anticipazione.

Giorgio Agamben si è recentemente soffermato sul gap che esiste tra voce e parola, laddove quando la lingua diventa parola fa smarrire il carattere puramente sonoro della voce. È come se la preghiera fosse sospesa ancora verso il suono, il gemito, il lamento, il grido, l’esclamazione, la risata, il singulto, il pianto come oralità primaria. Agamben ricorda il doppio significato di chiamare, apostrofare e dare o portare un nome (come ti chiami?), entrambi presenti nel vocativo. Nell’invocazione il nome e l’appello sono uniti intimamente. La pratica di ridurre a puro suono il pregare – l’om degli induisti, l’hu dei sufi – mostra come la lingua debba contrarsi a una radice primaria per richiamare a un dialogo chi si pensa all’origine dell’ascolto. Agamben non utilizza la ricchissima svolta etnolinguistica che ha lavorato nell’ultimo secolo sulle culture orali. Però suggerisce che la lingua può nominare, chiamare, parlare, imitare i suoni del mondo solo perché presuppone un accordo con esso, un’apertura, nel senso che il mondo è già aperto: nelle sue componenti complesse, dialogiche, alberi, animali, defunti, viventi futuri, spiriti, divinità. Da questo punto di vista la lingua è già reciprocità, chiamata reciproca, evidenza del legame degli esseri, compresenza.

Solo recentemente l’antropologia ha affrontato la preghiera come esperienza umana diffusa. Marcel Mauss l’aveva inserita tra le tecniche del corpo e poi le aveva dedicato un saggio provvisorio, ma la preghiera vi era ancora inclusa come complemento ad altre pratiche, il rito, le credenze. Nel 1994 un gruppo di antropologi e linguisti orientalisti ha deciso di affrontare il tema dal punto di vista dell’atto locutorio. Se la preghiera è un rivolgersi, allora deve seguire delle regole che non sono dissimili da quelle studiate dalla “pragmatica”, inaugurata da Stephen Levinson: quella deriva della linguistica che si occupa dell’aspetto dialogico o corale e contestuale del discorso. Per la pragmatica si tratta di affrontare il rivolgersi a un tu o a un voi con le regole del tatto, della cortesia, dell’insistenza, ma anche con le strategie retoriche volte a convincere l’altro.

Le pratiche di interiorità, che hanno aspetti mondani, colloquiali e mistici, sono una questione di etichetta. Ciò che riguarda la preghiera e il contatto con il divino è quindi direttamente informato dalle forme e dalle regole di comunicazione tra gli attori sociali. Ammettendo che un rito orale ci offra per il suo contenuto una certa comprensione dei propositi dell’orante, rimane il problema dell’intenzionalità. Cosa intende questi davvero con la sua maniera di comunicare con l’invisibile? È davvero cosciente delle sue intenzioni? Non sempre chi prega è un soggetto come lo intendiamo noi; nel senso che, come ha affermato Michelle Rosaldo, nel contesto rituale, spesso chi parla non è un individuo, ma un “dividuo”, cioè qualcuno che parla come parte di una soggettività piú ampia e plurima. In alcuni casi addirittura deve essere soppressa ogni intenzionalità per garantire il successo dell’operazione (come se la preghiera fosse impersonale e meccanica, lo stesso processo che giustifica ruote o bandiere di preghiera nel buddhismo nepalese o tibetano). Accade, ad esempio, nella divinazione yoruba, tra gli Azande e i Sisala. Gli autori degli studi pubblicati nel numero de “L’Homme” del 1994 dedicato alla preghiera nel Sud-Est asiatico concludono quasi sempre che spesso è difficile sapere chi prega e chi è invocato. Non viene in aiuto la retorica o la terminologia religiosa ma l’approccio interlocutorio – con antenati, umani, spiriti, dèi: un’analisi logica, sequenziale, delle pratiche di scambio. Per capire alcune pratiche occorre analizzare l’intonazione, le anafore, la messa in luce delle trame del discorso non fondate su una significazione esplicita, oltre che le parole e la struttura sintattica della frase.

Le preghiere sono conversazioni. Anche se uno dei partner non è presente si possono ricostruire l’ordine del dialogo e le parti pronunciate dall’interlocutore divino. Chi si è concentrato sulle variazioni di stile e su retoriche e metriche a seconda dei casi (invocazione, supplica, offerta, sacrificio, divinazione) è stato Peter Metcalf. Presso i Berawan del Borneo queste variazioni riguardano non solo i generi e i temi ma gli oranti stessi. Nel sacrificio e nella divinazione si seguono delle regole di stile, negli altri casi no. Presso i Chewong della penisola malese, gli atti di preghiera costituiscono un discorso unico secondo un modello unificato, le parole coincidono con una teoria dell’azione. Gli incantesimi trasmettono la conoscenza fissata nei miti che si esprime nei canti personali che hanno un valore strumentale, sono atti a ottenere qualcosa di specifico. A volte si tratta di veri e propri dialoghi rituali tra “pari”, come se fossero costituiti da botta e risposta, a volte, invece, la recitazione non tollera interruzioni. In molti culti c’è l’idea che sia il dio a pregare (non è in fondo quello che fa Gesù?). Le tradizioni cristiane e musulmane presentano un tratto comune. Si modellano sulla maniera con cui lo stesso creatore ha parlato. Per i musulmani Adamo conosceva la lingua di Dio. La tradizione orale nel giudaismo, nel cristianesimo e nell’islam conserva la nostalgia di una comunicazione diretta e trasparente con Dio.

Questo spiega, forse, perché tutte le forme di comunicazione non verbale siano ripudiate come illegittime presso i Gayo di Sumatra, che considerano eretiche le preghiere shamadiya accompagnate da offerte di cibo. È proibito parlare senza suono e mescolare alle parole degli elementi non verbali. Gli abitanti di Roti in Indonesia, al contrario, non concepiscono l’invocazione agli antenati senza il dono di cibo e in altri riti il gesto può essere considerato parte della preghiera. È interessante constatare che con l’erosione provocata dalla cristianizzazione, le strutture semantiche e sintattiche si sono conservate, mentre i gesti e le offerte sono stati eliminati.

Un’importanza particolare hanno la voce e il suono di essa. Marina Roseman parla di struttura sociale del suono. Presso i Temiar della penisola malese la comunicazione con l’aldilà passa per un agente, uno psicopompo prestigioso con una voce particolare, che non dipende solo dalla trance, ma dall’imitazione di alcuni suoni presenti in natura.

Richard H. Wallis, che ha studiato la musica nella poesia balinese che si compone di versi in sanscrito e di poemi cantati in balinese, mostra come i versi in sanscrito, incomprensibili, sono ricevuti come invocazione, mentre i canti in balinese sono riservati a usi rituali. Anche nel teatro delle ombre balinesi sono presenti lingue differenti che hanno un uso rituale diverso. Nel teatro rurale delle ombre (wayang) di Giava, la lingua utilizzata ha un potere veicolante l’interiorità degli artisti e degli spettatori. Le parole pronunciate diventano presenti nel mondo e non sono cancellabili senza un atto liberatorio specifico; ed è questo il motivo per cui, quando si fanno dei voti, bisogna farli a voce alta e, se vengono esauditi, c’è bisogno di un pagamento che disobblighi. Da questo deriva che altre dichiarazioni devono essere fatte a voce bassa per non impegnarsi in esse. Sempre a Giava non è l’atto illocutorio o la performance rituale ad avere efficacia, ma la loro materia sonora. La preghiera può anche essere silenziosa e situarsi tra il dialogo e l’antidialogo, tra formule oscure e silenzio.

Dalle evidenze antropologiche viene la conferma che, per «convincere dio» o gli esseri invisibili che ci circondano, non basta indirizzarsi a loro in modo spontaneo. Il tu ci consente di avvicinarci, ma per convincerli dobbiamo usare delle tecniche e soprattutto insistere in esse. Questo è il senso dei mantra, delle formule ripetute, del rosario delle nostre anziane del paese, ma anche della ripetizione dei 99 nomi di Dio nell’islam. Per convincere dio o gli dèi bisogna essere costanti, insistenti, volere davvero, dimostrare che la propria volontà è superiore alle avversità e alla stanchezza. Il buddhista novizio che ripete ventimila volte il sutra del cuore in giapponese sa che questa sua performance dimostra che la sua intenzione è realmente capace di diventare efficace.

È interessante che i discepoli chiedano a Gesù di insegnare loro a pregare. E Gesù li accontenta con una preghiera che nella sua semplicità è una immagine della disponibilità di fronte alla volontà divina, ma che, nonostante questo, chiede cose concrete, il pane quotidiano, essere difeso dal male e dalle conseguenze dei propri errori («rimetti a noi i nostri debiti come li rimettiamo ai nostri debitori» è una formula i pace sociale). La ritualità che Gesù vorrebbe liberare dagli orpelli del giudaismo dei suoi tempi viene riassorbita dalla formula che egli offre ai propri discepoli: «pregate così». Anche se è sull’efficacia che pone l’accento, sull’idea che Dio si fa convincere, forzare proprio dal fastidio dell’insistenza. Non solo bisogna saper pregare nel modo giusto, ma bisogna essere bravi nella diplomazia, nel prendere Dio per il verso giusto, nell’attirare la sua attenzione.