Il fariseo e il pubblicano della parabola sono due uomini che vengono da modi di vita profondamente diversi, oserei dire opposti; nella parabola, però, li troviamo nella stessa situazione: salgono al tempio per pregare. Ma anche qui emergono le profonde differenze tra loro sia nel modo di porsi davanti a Dio, sia nel contenuto della loro preghiera. Uno appare soddisfatto di se stesso, mentre l’altro non si sente per niente tranquillo. Il fariseo poi, nella sua preghiera, pronuncia ben ventinove parole, mentre il pubblicano ne utilizza solamente sei.
Iniziamo dal fariseo: come è il suo atteggiamento di preghiera al tempio? Il brano dice «stando in piedi». È un uomo che prega ritto, in piedi, e questo è un fatto normale perché è la posizione tipica di un ebreo sia nella preghiera personale, sia nel culto pubblico, ma qui si può leggere l’atteggiamento con un duplice significato. Il termine greco “
statheìs” può essere tradotto con “impettito”, “orgoglioso”, “a fronte alta” ed esprimerebbe che il fariseo ritiene di non aver nulla da temere davanti a Dio, perché è così preciso nel seguire la sua Legge che nessuno può muovergli alcuna critica. Il termine “
statheìs” può indicare, però, anche l’atteggiamento di chi si sente in confidenza con il Signore, tanto da potergli parlare in piedi dandogli del “tu” come ci si rivolge ad un amico. Io penso che il pregare del fariseo “stando in piedi” esprima tutti e due questi aspetti: la gioia di essere parte del popolo che è amico di Dio e che ha Dio per amico e l’orgoglio di chi si sente perfetto, perché segue tutte le regole.
La preghiera del fariseo inizia bene perché la prima parola che pronuncia di fronte a Dio è la parola grazie: «O Dio ti ringrazio». Il fariseo cioè riconosce che tutti i doni che ha ricevuto, tutto ciò che c’è di buono nella sua vita è prima di tutto un dono di Dio. L’inizio è quello giusto, ma poi si “perde per strada”, perché subito dopo cambia soggetto; dalla originaria consapevolezza di dipendere da Dio, lo sguardo è interamente concentrato su se stesso, con un senso di superiorità nei confronti degli altri, e inizia a ripetere la fatidica parola “io”: io non sono come gli altri uomini… io non sono come questo pubblicano… io digiuno due volte alle settimana… io pago le decime di tutto quello che possiedo. Il fariseo – nota papa Francesco – invece di avere davanti agli occhi il Signore, ha uno specchio, sta guardando se stesso (Udienza generale, 1° giugno 2016).
Ma passiamo al pubblicano, prima di tutto al suo atteggiamento quando sale al tempio e si mette a pregare. Mentre nel descrivere il fariseo Gesù è molto sintetico, dice solo che «stando in piedi, pregava tra sé», per il pubblicano spende molte più parole nel descrivere il suo modo di porsi davanti a Dio. Anzitutto «si ferma a distanza»: il suo atteggiamento esprime ciò che prova in se stesso; è a distanza perché occupa il posto di chi si sente lontano da Dio; sa bene che tipo di vita conduce, non lo nasconde a se stesso e neppure a Dio. Desidera inoltre mantenersi a distanza anche dal fariseo perché è ben consapevole della grande differenza che c’è tra il suo modo di vivere e quello di un uomo fedele alla Legge di Dio. Si sente indegno e lo esprime anche con la sua posizione nel tempio; occupa il posto di coloro che sono impuri secondo la Legge. Ancora di più, il pubblicano non ha il coraggio neppure di elevare gli occhi al cielo, che rappresenta il luogo dove abita Dio; in un certo senso non si sente degno neppure di pregare. E poi si batte il petto, o in modo più preciso il cuore, che è la sede del peccato, un gesto che non era ritenuto dignitoso per un uomo; solo le donne potevano farlo, perché era loro proprio piangere, strapparsi i capelli, ma per un uomo era inconcepibile, a meno che non fosse uno schiavo; praticamente era un riconoscere in modo pubblico di essere debole, come lo erano le donne secondo la mentalità di quel tempo; era anche un segno di disperazione.
Il pubblicano quindi è ben consapevole di essere peccatore, sa quali sono le sue colpe e non le esprime solo con la sua posizione, ma anche con la sua preghiera: «O Dio, abbi pietà di me peccatore», semplicemente sei parole! Non è venuto al tempio per ringraziare Dio, sa che non può vantare nulla, che non può pretendere nulla da Lui, può solo chiedere, medicare la comprensione del Signore, la sua misericordia, il suo perdono. Il pubblicano – come afferma Benedetto XVI – si vede a partire da Dio, non da se stesso; anche se curvo, a testa bassa e battendosi il petto, le sue semplici parole mostrano che ha rivolto lo sguardo verso Dio e in questo modo gli si è aperto anche lo sguardo di verità su se stesso. Sa di avere bisogno di Dio, della sua bontà e sa che non è lui a potersela procurare, lui è a mani vuote, solo Dio può donargliela (cfr.
Gesù di Nazaret).
Alla fine della parabola viene da porsi la domanda: chi dei due ha pregato meglio? Che dei due sarà stato ascoltato dal Signore? A chi Dio avrà accordato la sua grazia? La risposta più logica per gli ascoltatori di Gesù sarebbe certamente: il fariseo, un uomo fortemente serio verso Dio, che osserva ciò che prescrive la sua Legge, con grande senso di responsabilità nel suo impegno religioso, tanto da sacrificarsi compiendo più del dovuto e donando più del dovuto. Un uomo quindi degno di ogni rispetto. Possiamo immaginare allora la meraviglia che deve aver suscitato la conclusione di Gesù, qualcosa di rivoluzionario, che capovolge una valutazione a prima vista ben chiara. A tornare a casa giustificato, perdonato, non è il fariseo, ma il pubblicano. E Gesù ne porta anche la motivazione: «Perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato», da collegare strettamente con le parole iniziali di introduzione alla parabola rivolta ad «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Dio ha un modo diverso di valutare rispetto agli uomini, perché guarda il cuore e non solo il comportamento esteriore.
La parabola ci insegna anzitutto a guardare con verità, con sincerità noi stessi, a non nasconderci mai quello che siamo, a non nasconderci i nostri limiti, le nostre debolezze, i nostri peccati, consapevoli di non essere perfetti. Questo non toglie nulla al nostro valore di persone, anzi, al contrario: solo il riconoscere con verità quello che siamo ci permette di accettarci e di camminare per migliorarci. La parabola ci invita poi a guardare con verità anche a Dio, a non costringerlo a piegarsi ai nostri criteri di giudizio; soprattutto a non ritenere che noi siamo a posto, siamo giusti davanti a Lui, perché seguiamo qualche precetto esteriore o perché compiamo qualche azione buona. Davanti a Dio non possiamo fingere, non possiamo barare, perché Egli vede il nostro cuore, l’intimo di noi stessi. La parabola ci invita infine a verificare come sono i nostri rapporti con gli altri, a quante volte non ci accorgiamo neppure di chi ha bisogno di noi o riteniamo che non sia compito nostro; a quante volte tendiamo a classificare le persone, guardando con l’occhio del giudizio, intolleranti con chi non la pensa come noi.
L’Anno della Misericordia, voluto da Papa Francesco, ci aiuta a sentire la misericordia di Dio su ciascuno di Dio, ma ci chiede anche di essere misericordiosi verso gli altri, verso tutti, specialmente quelli che ci sono più vicini. Dio ci viene incontro per quello che siamo e ci offre la possibilità di riconoscere i nostri errori e ci mette nella condizione di superarli con la sua misericordia. Chi sa guardare con verità la propria esistenza sarà capace di guardare con occhi di misericordia quella degli altri, sarà capace di donare, anche nella situazione più profonda di errore, di peccato, di male, una luce di speranza di cui il nostro mondo ha bisogno. La misericordia, l’amore, vissuto nelle azioni di ogni giorno, è la forza che può dare un volto nuovo alla nostra realtà, è la forza che può cambiare veramente il nostro mondo.