Teatro. Rezza-Mastrella: «L'arte di essere precari e liberi»
Antonio Rezza e Flavia Mastrella (Monica Bianciardi)
L’inimmaginabile è avvenuto. L’imponderabile si è verificato. Evidentemente il teatro è ancora capace di spiazzamenti; e questo è un ottimo segno. Un segnale dirompente del Direttore del Settore Teatro della Biennale di Venezia, Antonio Latella, che ha fortemente voluto assegnare il Leone d’oro alla carriera 2018 alla coppia Rezza - Mastrella.
Ma perché questo riconoscimento ha una portata fuori dall’ordinario? Per rispondere a questa domanda bisogna aver visto almeno uno degli spettacoli in cui Antonio Rezza dal 1987 turba e spesso disturba, ammalia e provoca, accoglie e destabilizza, avvince e sconvolge le platee d’Italia e non solo. Da Pitecusa Io, da Fotofinish a 7-14-2128, da Fratto_X ad Anelante, passando per una serie sterminata di corto e medio metraggi sempre innovativi e originali incursioni nella tv di stato (la più recente e sorprendente è La tegola e il caso in cui il padrone di casa diventa spettatore nella sua stessa dimora), dentro o fuori gli habitat artistici creati da Flavia Mastrella, facendo capolino fra teli e pannelli o invadendo palco, quinte e platea, con o senza oggetti quotidiani, con un corpo che si dona in pasto alle ganasce ridenti del pubblico complice e vittima al contempo dei suoi strali, Antonio Rezza, nato a Novara ma nettunense da sempre, con una caratterizzazione dei suoi personaggi reali e surreali che evocano cadenze marchigiane e ciociare, si è imposto in trenta anni come uno degli artisti più caustici, eclettici, anticonvenziona-li, visionari e geniali del panorama “instabile” del teatro italiano. Sempre fuori dagli schemi, dai circuiti e dai cartelloni ufficiali. Chiedere dunque a lui, che si definisce «il più grande performer vivente sulla scena e uomo morente fuori dalla scena », che reazione ha avuto alla notizia del Leone d’oro alla carriera è un azzardo. Ma la risposta è invece ortodossa: «Ho provato grande gioia – ammette Rezza – per questo premio istituzionale mai cercato. Lo considero un magnifico incidente di percorso a dimostrazione che si può fare quello che si vuole senza accettare alcun tipo di compromesso. È paradossale che la Biennale, che non ci ha mai invitati, ci dia questo riconoscimento».
Provocherà qualche cambiamento il Leone d’oro nella realtà produttiva di Rezza - Mastrella?
«Assolutamente nulla. Continueremo a essere liberi, padroni del nostro destino artistico e a fare quello che vogliamo. Ci terremo stretto questo privilegio che paghiamo a caro prezzo ma che ci regala totale indipendenza. Io e Flavia siamo una completa anomalia nel sistema perché non prendiamo soldi statali non per stupidità ma perché crediamo fortemente nel concetto di precarietà. L’arte è precaria e non deve essere protetta perché nel momento in cui si accettano sovvenzioni si perde in libertà e si è costretti a una produttività che non decidi più tu. Siamo moralmente ricchi anche e soprattutto senza i soldi a cui rinunciamo».
Sul palco lo spettatore ammira e resta sconvolto innanzitutto da Antonio Rezza, ma dietro c’è anche Flavia Mastrella. Nelle vostre creazioni chi ispira chi?
«All’inizio lavoriamo separati – svela Rezza – Flavia realizza uno spazio che a me non appartiene, è una sua creazione autonoma, una sua esigenza. Io ci vivo almeno un anno in questo spazio e faccio quello che voglio, provo e improvviso continuamente utilizzando chiunque voglia farne parte e desideri partecipare. Sono prove assolutamente e democraticamente aperte. Poi alla fine io e Flavia ci rivediamo e montiamo il tutto come fosse un film».
In trenta anni di prolifica carriera quale è stata la creazione più geniale e la meno riuscita?
La meno riuscita è quella che nessuno ha mai visto perché non facciamo vedere le cose che non ci piacciono. Siamo sommersi dal meno riuscito, dagli scarti che conosciamo solo noi. E questo è il vantaggio di essere indipendenti: se ci rendiamo conto che stiamo sbagliando spettacolo non andiamo in scena. La più geniale? Tante cose, ma tutte sempre puntualmente abbandonate».
Che significa?
«Intendo dire che dalle genialità, dalle grandi idee bisogna sapersi difendere, ovvero abbandonarle, depotenziarle altrimenti ci si innamora e diventano una gabbia, la tomba delle idee successive».
Cosa c’è di universale nelle vostre performance?
«Tutto. A Mosca con la traduzione simultanea ridevano come in Italia».
È paradossale dire che ci sono tracce di spiritualità nella vostra corrosiva e disturbante comicità?
«Rispondo con le parole di un mio amico sacerdote, don Luca, il quale puntualmente mi dice: “Tu, Antonio, con quello che fai sei molto più credente di quanto tu possa immaginare”. In realtà facciamo vita monastica, viviamo la nostra missione artistica con un rigore assoluto, un’ossessione non economica ma esistenziale, un’urgenza che non ci lascia scampo. In questo senso c’è spiritualità».
In ogni vostro spettacolo si ride amaramente. Quale è il grumo di dolore che vi portate dentro?
«La noia. È una patologia per me ma anche un antidoto per evitare l’abitudine. E poi l’altra sofferenza che più che addolorarmi mi fa imbestialire è la pretesa di classificare gli esseri umani, non tollero chi stabilisce categorie di diversità».