Letteratura. Nell’epistolario tutti i tormenti di Gadda
Carlo Emilio Gadda
L’incomodo e l’incombenza, l’inadempienza fatale e la macchinazione inane sono i punti cardinali che, per testimonianza del diretto interessato, sembrano orientare l’esistenza di Carlo Emilio Gadda. Sono direttrici che, sia pure per vie diverse, spingono verso l’impossibilità e insieme finiscono per convergere in un inestricabile «groviglio» che non può non ricordare lo «gnommero» di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. E «groviglio » è infatti un termine che si ripete con una certa frequenza nella fase finale del carteggio tra lo stesso Gadda e l’amico scrittore Alessandro Bonsanti: quarant’anni esatti di corrispondenza epistolare, tra il 1930 e il 1970, ora presentati a cura di Roberta Colbertardo in un volume dal titolo scherzosamente e inequivocabilmente gaddiano, «Sono il pero e la zucca di me stesso» (Olschki, pagine XLVI+344, euro 35,00, con una premessa di Gloria Manghetti e una testimonianza di Alessandra Bonsanti). Si tratta di un documento utilissimo per ricostruire non soltanto la personalità degli autori, ma anche per esplorare il clima culturale di un’epoca che oggi è come avvolta nella leggenda e risultava invece opprimente e meschina allo sguardo dei contemporanei. Per i soliti motivi, che erano – e che sarebbero – la presunta inaffidabilità degli editori, la pretesa partigianeria dei premi letterari, la conclamata ingratitudine dei recensori e via elencando,
Ma a rendere ancora più istruttiva la lettura di «Sono il pero e la zucca di me stesso» è la pubblicazione di un altro importante repertorio di lettere e immagini, La guerra di Gadda, allestito da Giulia Fanfani, Arnaldo Liberati e Alessia Vezzoni per Adelphi (pagine 424, euro 30,00). Edizione eccellente e ricchissima di informazioni, che forse si sarebbe potuta intitolare anche “La guerra dei Gadda”, al plurale, tanto è evidente e complessa la geografia domestica che sottintende. Entrambi interventisti, nel giugno del 1915 i fratelli Carlo Emilio ed Enrico Gadda (nato nel 1893 il primo, il 1896 il secondo) interrompono gli studi al Politecnico di Milano e vestono la divisa. Nel capoluogo lombardo lasciano la madre Adele, che da lì a qualche tempo accetterà un incarico di insegnamento al Sud, e la sorella Clara, appena ventenne. Il padre, Francesco Ippolito, è morto nel 1909, senza aver rimediato alle conseguenze di una serie di investimenti discutibili, dei quali fa parte l’acquisto della villa brianzola di Longone, successivamente trasfigurata nella Cognizione del dolore. Al di là delle ripetute dichiarazioni d’affetto e delle non infrequenti attestazioni di moralismo patriottico, il quadro dei rapporti familiari appare subito chiaro. Lo spigliato «Enricotto», detto anche «Coticò», gode della predilezione delle donne di casa; il più introverso Carlo, che pure non nutre malanimo per il fratello, appare indeciso se accettare la competizione o accontentarsi di un ruolo secondario.
È un’altra guerra, questa che vede impegnata la stessa Adele (Clara è troppo giovane per andare in trincea, ma non abbastanza per non parteggiare) e che si concluderà con la sostanziale sconfitta del primogenito. Enrico muore nell’aprile del 1918, salutato come un eroe – anzi, «Eroe» – nonostante il fatto che l’aereo da lui pilotato sia precipitato per un incidente e non abbattuto dal fuoco nemico. In quel momento Carlo è prigioniero in Germania, travolto dalla disfatta di Caporetto: su di lui, come su tutti gli internati militari, pesa il sospetto di tradimento avallato dallo stesso Stato Maggiore. La diffidenza è condivisa perfino da Adele, che in una lettera obliquamente accenna agli «avvenimenti enigmatici e dolorosi dell’ottobre» 1917, ovvero alla disgraziata battaglia che ha costretto alla ritirata l’esercito italiano. «Così si chiude la mia milizia e la mia gioventù questo è il premio concessomi», ammette scoraggiato Gadda, in una sintesi amara e inconfutabile del quadriennio 1915- 1919. Tornato in patria, dovrà affrontare l’esame della commissione di inchiesta istituita per dare ai reduci la facoltà di scagionarsi. Una decina di anni più tardi, quando entra in contatto con Bonsanti (il quale, nato nel 1904, non ha vissuto direttamente il dramma della guerra), Gadda è un pero che non è ancora diventato zucca, per riprendere la citazione ariostesca che fa da insegna al carteggio tra i due: la sua fama di scrittore sta lentamente maturando, propiziata dal fervore delle riviste fiorentine in cui è attivissimo lo stesso Bonsanti, ma bisognerà attendere l’uscita in volume del Pasticciaccionel 1957 perché si sprigioni la fioritura di un successo al contempo repentino e tardivo. Per Gadda, insomma, è iniziata un’altra militanza, o «milizia», che è appunto quella delle letteratura, da praticare preferibilmente in condizioni di eccentricità e nascondimento.
Intanto, nel tempestoso 1941, Bonsanti ha assunto la direzione del Gabinetto Vieusseux di Firenze, incarico che manterrà fino al 1981 avviando tra l’altro l’Archivio Contemporaneo a lui attualmente intitolato. Anche se per un breve periodo, nei primi anni Cinquanta, le parti appaiono invertite (Gadda lavora in Rai e può capitare che sia lui a sollecitare la consegna di un intervento da parte del puntualissimo amico), è sempre Bonsanti a prendere l’iniziativa, come dimostra la vicenda del Giornale di guerra e di prigionia la cui pubblicazione viene da lui patrocinata nel 1955 presso Sansoni. La materia del diario è la stessa delle carte che ritroviamo adesso nella Guerra di Gadda. Contravvenendo alla sua caratteristica e ossessiva tendenza all’autocorrezione, l’autore si astiene dall’intervenire sul testo, eccezion fatta per la soppressione di qualche giudizio ritenuto compromettente. Lo scrupoloso Gadda non pensa però di rimediare a certe durezze nei confronti della famiglia, di modo che il Giornale rischia di peggiorare ulteriormente i rapporti con la superstite Clara.
Il riavvicinamento tra i fratelli avviene solo nel 1963 e Gadda ne dà conto in una lettera a Bonsanti: «Ho sbagliato, abbiamo sbagliato: il mostruoso equivoco ci ha separato per 20 anni, si può dire». Una guerra, forse la più penosa, è terminata. Ma restano gli assilli della popolarità, «il dottor L.» (l’editore Livio Garzanti) ancora aspetta la seconda parte del Pasticciaccio, che non verrà mai ultimato. Gadda si sente sopraffatto, inadeguato, stanco. A prendere la parola per lui, nell’ultimo messaggio indirizzato a Bonsanti, è lo studioso Gian Carlo Roscioni: «Non esce più di casa, e non vede nessuno: ma se lei ha occasione di venire a Roma, si faccia vivo, la vedrà volentieri». Siamo nel 1970, lo scrittore morirà tre anni più tardi. Bonsanti, invece, vivrà fino al 1984, orgoglioso di aver potuto seguire «parola per parola» lo sviluppo dell’opera di Gadda.