«Tutte le volte che mi capita lo sottolineo volentieri: la carità che conta davvero non è quella dei santi e delle istituzioni. La carità più importante è quella del popolo, degli uomini e delle donne senza nome che hanno fatto della Chiesa una comunità dove si amava e si ama, dove si poteva e si può vivere nella fratellanza. Quando dopo anni di studi ho messo mano a una storia della carità questa cosa è emersa evidente. Direi, anzi, che ne è l’aspetto più importante. Così ho spostato l’accento dalla storia delle istituzioni e dei santi alla storia del popolo di Dio». A parlare è Juan Maria Laboa, storico della Chiesa, professore emerito all’Università Comillas di Madrid, che oggi presenta all’Istituto patristico Augustinianum di Roma l’
Atlante storico della carità (Jaca Book-Lev), dopo aver pubblicato due anni fa una
Storia della carità.
Però non c’è solo la carità della gente comune.«Certo ci sono tanti aspetti importanti. Uno, per esempio, è il ruolo, sottolineato da Giovanni Paolo II, dei martiri per la giustizia. Il XX secolo è denso di queste persone uccise in America, in Africa, in Asia, in Europa, in Italia come padre Massimiliano Kolbe, Carlo Urbani, don Pino Puglisi, don Peppino Diana, l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, i tanti missionari religiosi e laici che muoiono assistendo i malati nelle pestilenze come Ebola, con un nuovo coinvolgimento degli ordini ospedalieri che sembrava avessero concluso la loro stagione. Persone morte per difendere i più poveri, gli abbandonati dallo Stato e dalle istituzioni».
Questo Papa dice spesso che la Chiesa è un ospedale da campo.«È la Chiesa centrata sull’uomo come uomo, con tutte le sue difficoltà. Nel libro ho preso le frasi di Gesù che hanno a che fare con questo tema essenziale e rivoluzionario: amarsi gli uni gli altri, gli ultimi saranno i primi, il potere è servizio, amare gli ultimi, porgere l’altra guancia, perdonare 70 volte 7... Questo significa che la Chiesa deve essere più scuola di carità che di dottrina».
La storia lo conferma. «È vero. In tanti momenti la Chiesa è stata essenzialmente scuola di carità. Tanta gente ha però la sensazione che l’accento sia stato posto sulla dottrina. Oggi c’è una forte sensibilità per la carità e la fede senza amore non è niente. Questo Papa lo ha compreso perfettamente e penso che siamo alle prime pagine di una svolta fondamentale nella Chiesa. E sarà una Chiesa che scoprirà di avere ancora tanto appeal».
Lei dedica ampio spazio ai missionari itineranti dei primi secoli. Sono ancora attuali?«Oggi più che mai. Sono stati importanti nei primi secoli del cristianesimo, in America nel secolo XVI XVII e poi, ancora, nel Brasile fra ’800 e ’900 nella morsa della persecuzione anticlericale. Preti e laici che andavano da un posto all’altro ed evangelizzavano. Parlavo recentemente con un francescano ex missionario nell’Amazzonia peruviana e mi diceva che erano 8 preti in una diocesi grande come l’Italia e senza i laici itineranti la comunità non si sarebbe tenuta in piedi. Credo che anche in Europa nei prossimi anni il ruolo affidato ai laici sarà sempre più importante: in queste cose la Chiesa sa essere molto creativa».
A proposito di attualità: le violenze contro i cristiani in Medioriente fanno ripensare ai missionari Trinitari e Mercedari che dal XII secolo si dedicarono al riscatto dei prigionieri dei musulmani...«I fondatori di questi ordini religiosi, Giovanni de Matha, Felice di Valois e Pietro Nolasco, pur in diverso modo, si consacrarono alla liberazione e al riscatto dei cristiani prigionieri. Dalla prima spedizione in Nord Africa, nel 1199, tornarono con 186 persone. Per pagare il riscatto mettevano a disposizione i loro averi e chiedevano l’elemosina in giro per l’Europa. Spesso offrivano loro stessi in cambio. Senza di loro non avremmo avuto il
Don Chisciotte: il 19 settembre 1580 ad Algeri, infatti, i Trinitari riscattarono Miguel de Cervantes per 500 scudi».
Evangelizzare farà sempre più rima con carità?«Un tempo i giovani avevano una vita religiosa forte e una dottrina chiara e questo era motivo per andare a lavorare con gli ultimi. Oggi ci sono molti giovani che non hanno una sensibilità religiosa, ma hanno il desiderio di essere utili per gli altri. Dobbiamo star loro vicino per aiutarli a manifestare il loro amore e poi far vedere quanto questo amore si arricchisca con Gesù».
Nel libro fa l’esempio «al contrario» di Giuliano l’Apostata.«Nei primi secoli della Chiesa i fedeli esercitavano fra loro la carità in modo tale da essere contagiosa, suscitando l’ammirazione dei non credenti. Anche Giuliano l’Apostata nel suo odio persecutorio per i cristiani tentò in tutti i modi di replicarne le istituzioni caritatevoli e di mutuo soccorso. Ecco se fossimo più accoglienti le nostre chiese sarebbero piene».
Per questo la gente ammira i missionari?«Alcuni mesi fa a Washington un amico spagnolo, che ha un incarico importante al Fondo monetario internazionale, mi ha detto che è stato deciso di utilizzare forti finanziamenti per l’Africa affidandoli ai missionari cattolici perché c’è la certezza che serviranno per le reali necessità della gente. Il cristiano sa spendersi per gli altri e la gente non vuole più sentire parole: le rifiuta dalla politica e le rifiuta dalla Chiesa. Invece, come l’Occidente ha perso la capacità di vedere l’importanza della fede nella storia, così noi cristiani abbiamo finito col nasconderci per anni le tragedie patite dai nostri fratelli in Medioriente».
È per questo che gli ultimi undici capitoli del suo libro sono dedicati all’attualità della carità?«La storia della carità ci mostra che la parola di Gesù è sempre stata, ed è, viva fino all’eroicità, anche se per molti oggi riguarda solo il passato. Nel nostro tempo abbiamo manifestazioni evidenti di carità (dal volontariato, alle suore di Madre Teresa, alle comunità come Emmaus, alla Caritas...) e altrettanto bisogno di ulteriore carità. In una società che muore nell’egoismo l’amare gli altri come e più di se stessi è il rinascere, è la misericordia di cui parla papa Francesco. Dobbiamo essere molto esigenti su questo punto: non la carità del denaro da spendere, ma quella di chi spende se stesso con semplicità, ogni giorno».