La mostra a Vicenza. Pop art: sotto i colori sgargianti emergono le schiavitù
Enrico Baj, “Coppia”, 1963 (particolare)
Robert Zemeckis è il regista più crudele di Hollywood, perché imbandendo commedie ricche di avventura e a misura di famiglia incide in filigrana un ritratto tra il satirico e il tragico della società e della storia a stelle e strisce, oltre che di un sogno americano che nasconde violenza e sopraffazione. È il caso per esempio di Ritorno al futuro, in cui si contrappongono lo squallore degli anni 80 e i toni confetto degli anni 50, vera età dell’oro del mito Usa: ma Zemeckis è sottile nell’instillare il dubbio che siano proprio in quel mondo confetto le radici di un presente dalla chioma grigia.
L’epopea di Marty McFly torna in mente uscendo dalla Basilica Palladiana a Vicenza, dove è allestita una mostra dedicata alla pop art in Italia. La mostra ha il sottotitolo, un po’ nostalgico, “Liberi di sognare” e si conclude con gli anni di piombo. Difficile non chiedersi come è stato possibile che quelli che sembravano sogni si siano trasformati in incubi. Nella mostra manca però l’accompagnamento di una lettura critica del contesto storico in cui questi fenomeni estetici hanno fermentato, se non per qualche sintetico cenno all’interno dei brevi profili di artisti che compongono i pannelli di sala.
Anche per questo arriva quasi improvviso il finale cupo, impregnato di violenza, non solo politica, e la coda simbolica di Castelporziano, in cui ogni utopia rivoluzionaria naufraga sul palco del Festival dei poeti nel caos populista dell’uno vale uno e sotto il peso pasoliniano di un pentolone di minestrone. Liberi di sognare? Sotto i colori sgargianti emerge una lunga serie di schiavitù: mercato, politica, ideologia... L’ebbrezza dello stupefacente prima del grande down.
Vista dalle tensioni dell’oggi, la pop art è anche il sogno di una civiltà industriale destinata a divorare se stessa. Detto questo, per numero di opere, qualità e scelta dei pezzi e ampiezza degli artisti rappresentati (trentasei, ben superiore alla norma) è forse una delle mostre più ricche degli ultimi anni dedicate a quei momenti. Nel percorso troviamo esposti tra gli altri Valerio Adami, Franco Angeli, Enrico Baj, Paolo Baratella, Gianni Bertini, Alik Cavaliere, Mario Ceroli, Claudio Cintoli, Lucio Del Pezzo, Fernando De Filippi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Pietro Gallina, Piero Gilardi, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Elio Marchegiani, Umberto Mariani, Gino Marotta, Titina Maselli, Fabio Mauri, Aldo Mondino, Ugo Nespolo, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Concetto Pozzati, Mimmo Rotella, Sergio Sarri, Mario Schifano, Giangiacomo Spadari, Tino Stefanoni, Cesare Tacchi, Emilio Tadini…
A questi si aggiunge una sezione dedicata al movimento beat, rivendicano una presenza italiana nel panorama letterario internazionale: ma non convince fino in fondo la promozione dell’esperienza del siciliano Antigruppo, così radicale da rasentare l’autolesionismo, da nota a piè di pagina a capitolo autonomo. Il curatore Roberto Floreani, come si rileva bene dal testo in catalogo (Silvana), è interessato a osservare la famiglia allargata della pop art italiana più da un punto di vista linguistico, sottolineando l’autonomia, la specificità e la precocità rispetto all’area anglosassone in virtù di una genealogia che risale al futurismo (e non solo a distanza: Balla, scomparso nel 1958, era stato il padrino della generazione della scuola di Piazza del Popolo), ma che in quegli anni era ancora innominabile.
La pop art italiana dunque non come un prodotto di importazione (la sigla rimanda al fenomeno americano che si impone a livello internazionale nella Biennale del 1964) ma momento di riflessione consentito dal rallentamento del boom economico e dall’avvio della crisi. Già nel 1960, l’anno della Dolce vita, sono diversi gli artisti in tutta Italia il cui lavoro sarebbe stato definito “pop” a posteriori, ma che in quel momento rientra nella categoria di “Arte Oggettiva” e “Figurazione Novissima”. Ma i temi sono già la cultura di massa e la rimasticazione dell’oggetto. Rispetto al realismo come tradizionalmente inteso, ora al centro c’è un derivato (il prodotto industriale, che è trasformazione di materie prime, l’immagine, la comunicazione...), la cui potenza ipnotica spinge nell’ombra e soppianta ciò che era chiamato reale. Le narrazioni sostituiscono la materia dell’arte, che è a sua volta narrazione. Un avvitamento che corre parallelo a quello dell’ideologia, di ogni colore, sulla realtà: e anche in questo senso quegli anni sono davvero figli dei decenni tra le guerre.