Firenze. Pop, diritti civili e arte: è l'America, bellezza
Roy Lichtenstein, “Artist’s Studio N. 1 (Look Mickey)” (1973)
Firenze Durante la propria carriera Rothko cercò, per quanto possibile, di evitare di esporre in mostre collettive. Riteneva che i suoi dipinti mal sopportassero l’interferenza con altre forme e con altri colori. Disposti in uno spazio adatto, essi dovevano dare vita a un ambiente contemplativo. E invece parte proprio da lui American Art, la vasta e variopinta mostra (catalogo Marsilio) che racconta quarant’anni cruciali di storia americana, tra il 1961 e il 2001, attraverso le molteplici espressioni artistiche che si sono imposte in quel periodo compreso tra l’inizio della guerra del Vietnam e l’attentato alle torri gemelle. Ne dà conto a Firenze, a Palazzo Strozzi, la selezione operata da Vincenzo de Bellis e Arturo Galansino di una cinquantina di artisti e oltre 80 lavori provenienti dal Walker Art Center di Minneapolis (fino al 29 agosto).
Nella sala introduttiva c’è anche Louise Nevelson, accomunata a Rothko per il senso religioso e mistico dell’arte e c’è anche Joseph Cornell i cui poetici teatrini non sono certo qualcosa di rumoroso e di dirompente. Ciò avviene a partire dalla sala successiva che documenta come, a partire dai primi anni Sessanta, qualcuno cominciò ad appendere alla parete del salotto l’immagine di una lattina di minestra in scatola e nella camera da letto una tela che raffigurava una sedia elettrica con il colore dello sfondo che s’intonava con quello delle tendine.
Le immagini di Warhol non apparvero da sole. Andarono ad aggiungersi ad altri segnali che stavano emergendo nella musica, nella politica, nella vita di tutti i giorni. Segnali che davano il brivido di un cambiamento imminente, di un salto nel futuro in un tempo in cui il futuro non dava affatto angoscia, ma euforia, presentimento di benessere, nonostante le incognite rappresentate dall’inizio dal conflitto vietnamita. La mostra, che segue un percorso cronologico, si sofferma ampiamente sugli anni Sessanta e Settanta che con la Pop art e il Minimalismo segnano un’epoca di sperimentazioni senza precedenti per l’arte del XX secolo di cui gli Stati Uniti divengono punto di riferimento mondiale. L’icona pop è Andy Warhol, omaggiato dalla mostra con ben dodici opere, che trasforma l’ordinario in straordinario, l’elemento comune in non comune, secondo una trasposizione in cui lo spirito dell’oggetto comune diventa il soggetto comune di questi artisti. Come Roy Lichtenstein che ripensa i fumetti, Claes Oldenburg che realizza 'monumenti colossali' con materiali ordinari, Robert Indiana che si ispira ai simboli e alla retorica visiva di marchi industriali.
Andy Warhol, “Sixteen Jackies” (1964) - Walker Art Center di Minneapolis
In opposizione all’Espressionismo astratto, insieme alla Pop, ma con risultati espressivi molto diversi, è la tendenza minimalista che privilegia il raffreddamento gestuale ed emotivo, l’impersonalità, la purezza della linea, della forma e del colore di un Frank Stella o di Dan Flavin, Carl Andre, Richard Serra. Quindi, dopo aver rievocato alcuni momenti delle collaborazioni tra Merce Cunningham, John Cage, Robert Rauschenberg e Jasper Johns che hanno rivoluzionato i rispettivi campi di danza, musica e arti visive, dando vita a un nuovo modello di interazione tra discipline, il percorso espositivo ci conduce alla grande videoinstallazione con cui Bruce Nauman trasforma il proprio corpo in una tavolozza, e a John Baldessari che occupa le intere pareti della sua sala con la riproduzione di un testo che invita a riflettere sui temi dell’unicità dell’opera e del ruolo dell’artista.
Un ruolo che attorno alla fine degli anni Settanta comincia ad assumere una sempre maggiore centralità in relazione a problematiche sociali e politiche quali lo sviluppo della società dei consumi, il femminismo, le lotte per i diritti civili ed è a questo punto che la mostra assume una direzione più mirata attorno questi temi. Lo fa innanzitutto fornendo spunti di riflessione sull’idea di 'American Dream' grazie all’interpretazione di Richard Prince che rilegge, attraverso la foto pubblicitaria, il sogno dell’immaginario collettivo incarnato dal cowboy a cavallo o dai motociclisti sui grandi chopper. Il testo dell’immagine pubblicitaria è anche il mezzo di comunicazione prediletto di Barbara Kruger e Jenny Holzer. Per la prima il rapporto tra parola e immagine è cruciale mentre per la seconda il testo è l’unico protagonista dell’opera che sovente assume dimensioni monumentali in spazi pubblici.
Soprattutto a partire dagli anni Ottanta il tema della lotta per i diritti civili, che rappresenta uno dei principali fili rossi attraverso cui ripercorrere la storia americana, insieme allo sviluppo dell’emancipazione delle minoranze etniche e dell’identità di genere, sono argomenti ampiamente trattati dagli artisti con sensibilità e modalità diverse: chi con opere di denuncia e con l’attivismo, chi con la produzione di lavori intimisti e molto personali. Quali sono quelli di Robert Gober che con un linguaggio visivo metaforico esprime l’orrore e la paura, la rabbia e il dolore nell’affrontare la maledizione dell’Aids, tema verso cui Felix Gonzales-Torres ha un approccio, come precisa de Bellis, «più silenzioso e minimalista». Focus speciale della mostra è infine quello dedicato alle più recenti ricerche degli anni Novanta e Duemila, in cui spiccano figure di riferimento per la comunità afroamericana quali Kerry James Marshall e Glenn Ligon o artisti che investigano in modo originale l’identità americana come Paul McCarthy, Mike Kelley, Jimmie Durham e Kara Walker della quale è proposta un’ampia campionatura di opere video e disegni che testimoniano la sua suggestiva ricerca tra storia e satira sociale intorno ai temi della discriminazione razziale.