Occidente. Warhol, la Pop Art e gli idoli della società dei consumi
Andy Warhol: il ritratto di Marylin Monroe.
A che serve un ombrello? Ma che domanda è mai questa, si dirà. Nella stragrande maggioranza dei casi, serve a ripararsi dalla pioggia, o tutt’al più alle signorine della buona società di un tempo, dal sole. Talvolta lo si usa come bastone da passeggio, ma questo tradisce la sua vera funzione e mette in discussione l’assioma modernista secondo cui la forma dovrebbe seguire la funzione. Molti anni fa a Firenze, alle lezioni durante le quali Giovanni Klaus Koenig parlava agli studenti di design industriale, mi capitò di sentirlo chiedere loro un esempio di kitsch perfetto. Ci fu un momento di disagio collettivo, perché il timore di spararla grossa ebbe la meglio in tutti. Koenig cavò d’impaccio la platea indicando quello che per lui era un caso di kitsch riuscito: il radiombrello. Andava di moda negli anni Settanta.
Che cos’era il radiombrello? Un parapioggia dotato di una radiolina incorporata nel manico. A che scopo? Ovvio: ripararsi dalla pioggia mentre si guarda la partita allo stadio senza dover rinunciare a seguire alla radio lo svolgimento delle altre partite della giornata. Il radiombrello è kitsch ed è anche pop. Ma per Koenig il kitsch vero era quello che si presenta come «cattivo gusto perfetto». E a questo punto, colpo di scena: Koenig definì il Guggenheim di New York, quello del sommo Frank Lloyd Wright, un compiuto esempio di kitsch accanto all’Altare della patria, al Vittoriano (vituperato da Zevi, che invece stimava Wright il più grande architetto del secolo scorso e non solo), all’edificio della Mondadori a Segrate progettato da Niemeyer e alla Metropolitana di Mosca. Oggi potremmo potremmo aggiungere a questi esempi molta al- tra roba degli ultimi decenni, per esempio più di uno degli edifici di Frank O. Gehry. Bene. Al pop- kitsch più che alla Pop Art, sebbene fin dal titolo si prenda Warhol come spartiacque, dedica un saggetto intrigante il filosofo Andrea Mecacci.
Nel classico caso dell’uovo e della gallina, dovendo stabilire se venga prima l’uovo di Warhol oppure la gallina Pop si dovrà infine ammettere che anche in questa strana performance Warhol riesce a essere entrambe le cose: la gallina dalle uova d’oro, ibrido perfetto del capitalismo imperante. Uno dei primi a usare l’espressione “pop art” fu il critico inglese Reyner Banham nel 1955 riferendosi non a Warhol e compagni, ma allo streamline del design automobilistico americano, che disseminava code allungate e aerodinamiche ovunque (carrozzine, ferri da stiro e frigoriferi compresi) che nulla avevano a che fare con la funzionalità ma agivano da dispositivo del desiderio su chi doveva acquistare macchine e altri oggetti industriali. Mecacci in questo suo agile libello – Dopo Warhol. Il pop, il postmoderno, l’estetica diffusa (Donzelli, pagine 106, euro 16) – parte proprio dalla questione dell’americanizzazione del gusto nel mondo occidentale. Basta ricordarsi del successo che ebbe in Italia tutto ciò che era americano fin dagli anni Trenta e ancora in quelli conclusivi della seconda guerra mondiale, per capire che cosa significhi. E il piano Marshall fu il cavallo di Troia che rafforzò questa posizione dominante. Non si tratta dunque solo di comunità linguistica – quella per esempio fra Usa e Gran Bretagna –, perché il pop salta la koinè verbale e accede direttamente all’iconico e al simbolico. Il tema delle nostre società è la persuading image, punto di contatto fra pop e postmoderno.
L’immagine, l’oggetto iconico, lo slogan pubblicitario: tre elementi fondamentali del pop, ma che sono da ricollegare ai valori preculturali, a una retorica che agisce sull’inconscio più che sulla psiche (gli stessi in- tellettuali che si posero il problema del pop «erano del tutto disinteressati a fornire una teoria del pop. Il pop è un fenomeno completamente alieno alla nozione di logos »). Il viatico attuale a questa logica è la consumabilità ( expendability) che, in perfetta sintonia con la mentalità prestorica e preculturale americana, risulta un concetto privo di problematicità; niente a che fare con la dépense di Bataille, la versione avvelenata del dono, che è sacrificale perché fondata sul pensiero del dispendio di sé.
Alla base c’è il contrasto fra bellezza naturale e bellezza artificiale: «La temporalità della natura non è la temporalità del consumo». Ma questo ci sta: niente è meno naturale dell’uomo, in effetti; è proprio questa la differenza dal resto dei viventi. L’uomo compie artifici sapendo di compierli. Questo in sé non è pop, ma certamente rientra nelle categorie del moderno. L’ultimo mezzo secolo ha dimostrato che nella antichissima querelle fra l’oggetto e il soggetto, quest’ultimo ha perso terreno cedendo il primo piano all’oggetto. Completa immanenza della realtà come merce al punto che fra l’oggetto e la sua immagine – per un principio iperrealista di inerzia – non c’è più differenza. Il barattolo della zuppa Campbell e la sua icona riprodotta da Warhol sono sovrapponibili così che l’immagine rende residuale la zuppa (è più importante possedere l’icona che riempire la pancia, insomma). È la nuova religione del capitale crea l’oggetto e il sistema di comunicazione che lo avvolge facendone la sua iconostasi che vela la visione diretta del potere, come nella finanza sempre più impalpabile ma capace di decidere i nostri destini.
La finanza ha preso il potere e ha reso servile il lavoro, trasfor-mando il lavoratore in nuovo paria. È l’effetto antibenjaminiano del capitalismo sulla Pop Art: non è vero che l’opera d’arte ha perso la sua aura, un tempo legata al valore di unicità, in realtà l’ha soltanto sostituita con un’altra più brutale e prosaica: l’aura del valore economico, consumabilità e riproducibilità che genera oro, denaro, capitale. E poi venne il trucco. Il make-up. Qui le argomentazioni di Mecacci si fermano al già detto. Il primo a notare l’artificiosità dell’arte, la falsità di certe costruzioni, fu – ahinoi – il nazistoide e geniale Hans Sedlmayr, che nella Perdita del centro parla, a proposito delle camere degli specchi settecentesche, di «preponderanza del “finto”», assumendole come sintomo di uno spostamento del gusto occidentale verso l’inautentico.
E – in fin dei conti – che cos’è Las Vegas, con le sue insegne, le luci frastornanti dell’entertainment, le sue sale da gioco, le sue cappellette dove ci si può sposare a qualsiasi ora davanti a un pubblico ufficiale che indossa l’abito bello del cow boy o del bovaro, se non una camera degli specchi che produce la catalessi della mente costruendole intorno un mondo tanto reale quanto finto? Sublimazione erotica – dice Mecacci – della bellezza pop. È a proposito di Andy Warhol sintetizza il concentrato di diversità che sarebbe all’origine della nuova estetica: «L’omosessuale slavo albino di Pittsburgh che diventa l’epicentro della rivoluzione pop». La modernità è un progetto incompiuto, come ha sostenuto Habermas? Per Hans Blumenberg ogni storia culturale parte da un atto di fondazione che rappresenta l’origine.
Avendo l’illuminismo escluso come irrazionalistico ogni valore del mito (salvo poi dover riscontrare che la ragione stessa crea i suoi miti), si è precluso la strada per una fondazione del moderno a latere della concezione cristiana. Il moderno è incompiuto perché non ha saputo darsi i suoi miti, e dunque una origine propria da cui discendere. Il postmoderno invece ha creato dei miti fittizi, per lo più superficiali, molto deboli nella costruzione (pescando spesso nel passato e usandolo come giocattolo: simile a quello del «cavallo sul tetto» di Baudelaire). Ma se si guarda con attenzione, il primo esempio di postmoderno lo si trova al Bauhaus (il tempio del modernismo razionalista), con le sue pratiche esoteriche e spiritualistiche; e la critica di Gropius al “falso Romanticismo” cozza contro la sua affermazione sui funzionali silos per sementi di Chicago: sono i propilei della modernità, ma bisogna rivestirli di una idea spirituale. Idealismo? No, un caso ante litteram emblematico di make-up estetico; un esempio di moderno che è già postmoderno.