Dal volume in cui Marco Beck raccoglie i suoi interventi critici, anticipiamo il ritratto del grande scrittore lombardo Giuseppe Pontiggia: narratore di successo e, insieme, uomo dalla spiritualità inquieta.Nel catalogo delle opere saggistiche di Giuseppe Pontiggia spicca uno snello quanto pungente florilegio di quelle che, con ricalco goethiano, potremmo definire le sue
Maximen und Reflexionen: Le sabbie immobili (1991), distillato di una satira ilare e tagliente brandita a fustigare le distorsioni di linguaggio e di costume della società italiana. In una pagina memorabile di quel “taccuino” Pontiggia rifletteva, con dose micidiale d’ironia, sul rapporto tra gli scrittori, l’invecchiamento e la morte: «Pochi sono gli scrittori che sanno invecchiare, ma ancora meno quelli che sanno essere morti». Un aforisma, certo. Fulminante come tutti gli aforismi che centrano alla perfezione il bersaglio della verità. È noto, del resto, che questa pregnante cifra logico-espressiva si armonizzava in modo del tutto peculiare con la prosa neo-atticistica del romanziere e saggista lombardo che ci ha d’improvviso abbandonato all’alba del 27 giugno 2003. Singolarmente, Peppo (con questo affettuoso nomignolo da zio bonario gli si rivolgevano congiunti, amici, colleghi) si è sottratto alla norma da lui stesso enunciata. Non ha saputo – o meglio, non ha fatto in tempo a invecchiare, a ritrarsi in un suo personale
De senectute, goloso com’era di vita, di storia, di attualità, di temi filosofici, civili e religiosi, di incontri umani, di letture beatifiche. [...] Un candidato, Giuseppe Pontiggia, all’immortalità presso i posteri? Uno scrittore «che non sa essere morto» nel senso più nobile dell’espressione? Non scherziamo, replicherebbe il sorridente Peppo. Oppure sì, ammiccherebbe, va bene, scherziamoci sopra, ma con il condimento di una sana autoironia, rilanciando una
boutade tratta anch’essa dalle
Sabbie immobili: «L’ascesa dello scrittore tocca il suo culmine con la decrepitezza e la morte. Lo scrittore morto è immortale». [...] Volendo incidere, su un ideale
monumentum aere perennius, una sorta di epigrafe, uno stemma per eccellenza “pontiggesco”, si potrebbe a lungo esitare fra diverse sottolineature: la passione viscerale per i libri d’ogni epoca e Paese riversata in una biblioteca ricca di quarantamila volumi, identificabile di fatto con l’abitazione milanese e relative
dépendances; il generoso supporto umano intrecciato all’assistenza professionale nei confronti di giovani e meno giovani cultori della letteratura; il ruolo di coscienza critica, interprete di una sensibilità neo-manzoniana, di fronte alle vicende politico-culturali di Milano, spesso in sintonia con gli interventi dell’arcivescovo ambrosiano, il cardinale Carlo Maria Martini. Tuttavia, al di là di queste e di altre plausibili alternative, io sceglierei una parola-chiave, una parola “scandalosa” che potrebbe, a mio avviso, siglare con fedeltà un ritratto non epidermico, non in forma di bassorilievo ma a tutto tondo, dello scrittore e – più in profondità – dell’uomo Giuseppe Pontiggia. Questa parola, immensamente semplice e semplicemente immensa, è preghiera. La mattina di lunedì 30 giugno 2003, a conclusione dell’omelia funebre (lievitata da un’aura rasserenante, come protesa verso un orizzonte di vita eterna), monsignor Ravasi citò un brano di forte intonazione autobiografica estrapolato da
Nati due volte che, nella navata centrale della chiesa milanese di San Giovanni in Laterano, risuonò con sconcertante nitore cristiano. [...] È probabile che molti, fra quanti assistevano alla funzione religiosa sinceramente addolorati, abbiano a quel punto sussultato. Attraverso questa confessione da loro mai prima udita né letta (o magari letta sì, ma non meditata), attraverso questo audace colpo di sonda lanciato verso l’Infinito, avranno infatti scoperto, in Pontiggia, anche la compresenza di un esploratore dell’Assoluto:
«Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l’ho negata anch’io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un’eco». Rare, d’altronde, risultavano le sortite autobiografiche concesse da un’indole riservata e da quella «castità di linguaggio» (bella definizione di Lorenzo Mondo) che imponeva alla conversazione la stessa
brevitas della scrittura. Con Ferruccio Parazzoli, amico di lunga data, Pontiggia aveva però, eccezionalmente, oltrepassato il limite del consueto autocontrollo: in un’intervista pubblicata prima su “Famiglia Cristiana”, poi in un volume riepilogativo dello stesso Parazzoli (
Il gioco del mondo, Cinisello Balsamo, San Paolo 1998), si era confessato attratto dal mistero della trascendenza, dal paradosso per cui l’estendersi della conoscenza scientifica allarga il campo dell’ignoto. Muovendo dalla convinzione che «la cosa più importante, in termini religiosi, è la salvezza», era giunto ad affermare: «Rispetto al problema della morte e della salvezza, lo scrivere passa in secondo piano». E si era soffermato a tratteggiare una propria escatologia, la mappa di un Aldilà dal quale tendeva ad escludere la minaccia di una condanna eterna, per lui (come per Balthasar) incompatibile con l’immagine paterna di Dio. Invece, di fronte a Luciano Luisi pronto a raccogliere la sua reazione a caldo subito dopo la proclamazione della vittoria al Premio del Pen Club 2001 per lo stesso
Nati due volte, si era arroccato in un pensoso riserbo: «Credo sempre nel linguaggio come nella risorsa più importante che l’uomo abbia per capire ed esprimere il mondo. Però ci sono anche cose che passano nel silenzio, ci sono cose che non vengono e non verranno mai dette, ma che sono fondamentali».
Cose mai dette, ma fondamentali. E cose solo pudicamente accennate: la preghiera, la guarigione del cuore, la speranza che sconfigge la disperazione, la salvezza insita nella risposta all’annuncio del Vangelo, nella consapevolezza che noi uomini siamo figli (tutti più o meno disabili, tutti portatori di un handicap fisico o psichico) dello stesso Padre «amante della vita», così come nella Bibbia lo rappresenta il
Libro della Sapienza.