In un articolo dedicato al decennale della chiusura del Concilio un giornalista osservava, tempo addietro, che «nel flusso di scambio, od osmosi, tra la cultura laica e quella cattolica, che caratterizza questi anni, la cultura cattolica sembra affascinata da miti a lungo proibiti e raccoglie, del laicismo, le scorie; mentre quella laica sembra avere meglio compreso l’essenza del giuramento di verità che sta nell’ardente cuore cristiano». È un giudizio che va meditato, vista la carica di giustezza che possiede. Ma a patto prima di spogliarlo d’almeno una parte delle sue venature pessimistiche e di riconoscere che il Concilio è stato comunque una delle più straordinarie e inaspettate rivoluzioni spirituali del nostro tempo, certo la più coraggiosa, visto il fervore che ha suscitato, i lieviti che in ogni caso ha messo in circolazione, l’aria di nuova giovinezza penetrata nel mondo cattolico nonostante, e talora in virtù, degli stessi elementi sconcertanti o contraddittorî che ha fatto emergere e la radicalità dell’esame di coscienza e del rigetto di vecchi errori. Basti pensare, al confronto, a quanto più frenato, più guidato, più parziale è stato negli stessi anni, a partire dalla destalinizzazione, l’esame di coscienza, il processo di revisione all’interno dei vari marxismi. Certo è che il revisionismo non ha fatto emergere un tipo di marxista sostanzialmente nuovo quanto al suo rapporto oracolare con la propria ideologia; mentre dal Concilio è scaturita non solo un’altra Chiesa, ma un’altra tipologia di cristiano. E si potrà naturalmente essere turbati dalle contraddizioni che attraversano il mondo cattolico e stupirsi del venir meno della sua tradizionale compattezza; si potrà inoltre restare sconcertati (per attenersi al solo settore intellettuale) di fronte alle proposte delle cosiddette nuove teologie e a certi loro esiti; per non parlare, appunto, delle scorie che i cattolici vanno raccogliendo, senza esprimere una propria originalità. E tuttavia è assai probabile che, quando si farà la storia del pensiero dei nostri anni, si dovrà se non altro riconoscere che, di fronte alla tranquilla scolasticità delle altre filosofie, quella cristiana è l’unica veramente in movimento. Riflettendoci bene, le tranquille certezze ideologiche e filosofiche sono tutte altrove, presso i settori non cristiani, presso i quali la cancellazione delle esigenze metafisiche comporta un curioso dogmatismo della negazione, un agnosticismo tutto in orizzontale, un rifiuto dei rischi speculativi e al limite un mare di coscienze pacificate. Al contrario, quello cattolico è tutto mosso e fermentante e, sì, tutto rischi e magari improvvisazioni, ma anche tutto aperture. Detto altrimenti, in un tempo d’angustie ideologiche, di parole d’ordine, di slogan, di semplificazioni, di fanatismi, resta l’unico luogo dove l’uomo continui a interrogarsi secondo una prospettiva che non ne deprime la complessità. Ciò per limitarmi, ripeto, al solo settore intellettuale. Ma come ignorare la straordinaria invenzione di vita cristiana che si verifica oggi in tante direzioni? Inevitabilmente un simile quadro, che ho di proposito tratteggiato al positivo, ha anche i suoi risvolti e le sue molte ombre, a cominciare (e qui ritorno alla frase citata all’inizio) da certi febbrili aggiornamenti che senza dubbio sono la conseguenza del fermo di troppi anni e rispondono a una benefica urgenza d’uscire dai ghetti culturali in cui il cattolicesimo si era barricato, ma comportano sovente sia la tendenza ad appropriarsi delle scorie del laicismo, sia, al limite, una vera e propria perdita d’identità. Il cristiano si aggiorna, si allinea ad altre culture, spesso ad altre ideologie, ne sposa le ragioni e il linguaggio, ma càpita spesso che, indipendentemente da una immutata e sicuramente sincera professione di fede, debba segnare in perdita proprio la sua fisionomia di cristiano. È il pericolo maggiore, in quanto, lungi dall’assomigliare a una delle tante operazioni sincretistiche cui il passato ci ha fatto assistere, denunzia una condizione di minorità, da cultura subalterna. Il discorso tocca in particolare i cosiddetti cattolici del dissenso, il cui problema non è certamente quello politico della milizia in partiti diversi da quello tradizionale dei cattolici (decisione altamente rispettabile, a mio parere, e che fa parte per di più delle libertà statuite dal Concilio), ma quello spirituale di quanto essi sono destinati a portare ovvero a perdere all’interno di tali partiti. E cioè: il cattolico vi milita con la speranza di permearli dei valori nei quali crede, e propriamente di «cristianizzarli »? E si spende in tale direzione, si adopera a «convertire»? Non so se accada spesso. Solitamente egli entra in quelle tali formazioni politiche con l’entusiasmo tutto cristiano dell’operaio della terra che vuol cooperare a cambiare il mondo. Ma per ora non gli si domanda tanto: basta che dia la propria anima. Ed eccolo spesso, infatti, cambiare linguaggio, mentalità, prospettive spirituali, filosofia; eccolo insensibilmente lui «convertito» ad altre visioni del mondo, addirittura con quel tanto di fervore in più che gli proviene dalla sua fondamentale religiosità e che rende di nuovo «religiosi» il suo impegno politico e la sua testimonianza. È il «giuramento di verità che sta nell’ardente cuore cristiano» cui accennava il giornalista menzionato all’inizio, che viene di nuovo fatto, ma secondo una pronunzia altra e secondo una tendenza che vede errori e colpe soltanto all’interno del mondo cattolico, e dimentica ad esempio che in fatto di dogmatismo ideologico, di repressioni, di divieti alla libertà (per non dire peggio) non è stato certo esso, nel nostro secolo, a stare in prima fila.