Forse Palazzo Grassi è una sede difficile per esporre Sigmar Polke. L’impressione, a cominciare dall’allestimento al piano terra, che risulta davvero poco indicato alle gigantesche opere dell’artista tedesco (ma di nascita polacca), ridotto a essere una giustapposizione di superfici più o meno scure, quelle che connotano i quadri degli anni Duemila, sulle quali si riflettono luci e ombre a loro volta riflesse sui pavimenti marmorei grigioverdi (gioco curioso, ma forse involontario); l’impressione, insomma, è che Palazzo Grassi sia un luogo troppo pretenzioso e al tempo stesso connotato per un artista che accumula segno su segno, immagine su immagine, dando l’impressione che il nucleo essenziale della sua pittura sia sempre altrove; sfasato, per così dire, rispetto alla risposta dell’immagine che vediamo (o magari non vediamo affatto) su quadri che talvolta sono enormi, grandi quattro o cinque metri. Polke è morto nel 2010 a sessantanove anni. Era di poco più anziano di Anselm Kiefer (che è del 1945). Loro due, con Gerhard Richter, che ha oggi ottantaquattro anni, sono i tre maggiori artisti tedeschi del secondo Novecento; tutti e tre, ragionando con un criterio molto elastico e forse poco significativo, sono della generazione successiva a Joseph Beuys, che viene solitamente collocato sul versante concettuale e azionistico dell’arte tedesca, ma era nondimeno un formidabile disegnatore.Polke, rispetto a Kiefer, è un accumulatore e un enfatizzatore di forme. Come ricorda Elena Geuna nel catalogo della mostra allestita a Palazzo Grassi, Polke viaggiò molto, anche in Italia, a partire dagli anni Sessanta, perché era affascinato dalla stratificazione storica che si coglie nelle sedimentazioni artistiche del nostro Paese; viveva anche per documentare, con la macchina fotografica e la telecamera, sempre a portata di mano. Non registrava soltan- to le testimonianze artistiche e ambientali; fermava tutto ciò che lo attraeva, quindi anche molti momenti privati, incontri, dettagli, muri, materiali, paesaggi, oggetti, immagini. Era stimolato all’enfasi non in senso retorico, ma per la forza decorativa dei segni, anche quando sono segni che rimandano a questioni politiche o sociali. Così il retino che nelle tipografie serviva per i clichè fotografici, ingigantito, diventa mezzo espressivo, ma suggerisce anche che vi sia sempre, in ciò che vediamo, uno spazio nascosto, invisibile, un assenza se vogliamo, che la percezione ottica registra ma raramente porta alla luce, e che la tecnologia invece ci permette di vedere. Quello spazio o materia assente che vediamo nei suoi
Rasterbilder: 'dipinti a
raster', ma anche immagini o forme a
raster (griglia), dunque la sostanza stessa del dipinto. Queste opere nate all’inizio degli anni Sessanta, in bianco e nero (come le fotografie dei giornali dell’epoca ingrandite di cento volte e quindi trasformate da immagini in strutture della percezione), ne hanno fatto subito un artista pop; in realtà si può dire che il pop in Sigmar Polke sia sempre esornativo; l’inserimento di materiali come elementi dell’immagine (legno, spille da balia, corde, carte) non ha una funzione per così dire metalinguistica o neodada, ma è inerente al discorso formale sull’opera. Facile, considerando i suoi natali polacchi e l’appartenenza alla storia tedesca, attribuire alla
Kartoffelhaus del 1967 (poi ripresa nel 1990) una funzione politica vedendo nelle patate che l’artista ha inchiodate a ogni punto d’incrocio dei due assi ortogonali che compongono la struttura a reticolo ligneo della casa, un retropensiero o un’allusione alla storia tedesca del Novecento. Vero, oppure no. È proprio questa libertà di vedere e di pensare dello spettatore che entra in gioco, senza diventare però vincolante per l’artista. La misteriosa essenza decorativa cercata da Polke si può vedere già nel
Trittico con striscia gialla, del 1966, una spirale giallastra appena visibile che sale nel primo quadro fino al lato superiore e ricompare negli altri due quadri forse alludendo alla fettuccia che segue le evoluzioni di una ginnasta durante la prova ritmica. A dare a questo segno un valore estetico è lo svolgimento di quella linea gialla su un fondo completamente bianco, che conferisce all’opera una valenza astratta e preziosa, ornamentale e mistica al tempo stesso. A differenza di Kiefer che si è fatto carico in modo autobiografico del senso di colpa tedesco, con un’inclinazione simbolica e quasi sciamanica, Polke sembra convinto che soltanto nella sedimentazione estetica, nel gioco che la pittura inscena con l’esterno, cioè con lo spazio vissuto, interattivo, nel quale viene immessa, c’è speranza, maggiore di quanta non ne possa garantire la purgazione perenne della propria anima da una colpa che ha (se non si vuole ridurre il popolo tedesco all’incarnazione del Male) qualcosa di inesplicabile, di irraggiungibile, di inconcepibile, eppure reale per tutti noi. Se per Kiefer le macerie, i ruderi, le rovine fisiche (architettoniche e visive) sono il contrappasso inevitabile di una storia dove a essere andata in frantumi è l’immagine stessa dell’uomo, per Polke, invece, si deve avere il coraggio di ricomporre i frammenti dello specchio e guardarsi in quella superficie scheggiata cercando di ritrovare un sentimento poetico, una memoria che è sia della storia e dell’arte, quanto della vita ordinaria e delle sue icone banali.In contemporanea ai
Rasterbilder, nel decennio dei Sessanta, Polke dipinge immagini di pura decoratività (
Das Palmen-bild e Bohnen) oppure l’ironica scena di una scimmia che cuoce l’uovo fritto, la
Casa delle patate e il
Trittico della striscia gialla, il divertente
Sessione di telepatia dove ci sono due quadri sopra i quali è tracciata una scacchiera nelle cui caselle si trova scritto
ja e
nein sono collegati da corde che, in realtà, testimoniano una telepatia negativa, poiché se tutte partono da
ja finiscono nell’altro quadro con
ja, nein oppure un vuoto. Gli anni Sessanta sono stati per Polke il decennio dove ogni possibilità espressiva veniva esplorata; Polke, come Kiefer, è pittore, ma non solo un pittore. E questa qualità ibrida ricollega entrambi al discorso wagneriano-modernista dell’opera d’arte totale.