Ambiente. Plastica, se è micro inquina di più
L’ultimo documento a dimostrare come i mari del mondo siano inquinati arriva da Richard Kirby della 'Marine Biological Association', il quale ha realizzato un filmato dove si osserva il momento in cui un piccolo organismo marino ingoia una fibra di plastica. Il plancton è composto da piccoli organismi che vivono nelle acque marine e che si lascia trasportare dalle correnti. Quel che Kirby ha osservato è l’inizio di una sequenza che porterà non solo quel piccolo essere ad ammalarsi o morire, ma anche a creare problemi a tutti gli organismi della catena alimentare della quale sta alla base. «Quando ho visto la scena al microscopio ho pensato che fosse utile che tutti ne venissero a conoscenza. Ai più sono note le conseguenze della presenza in mare di oggetti di plastica di medie o grosse dimensioni, perché sono ben visibili le conseguenze su balene, foche e uccelli. Ma il problema delle fibre o microfibre è poco noto in quanto sono così piccole, inferiori a 5 millimetri, che risultano del tutto invisibili». Il problema delle microfibre di plastica è conosciuto agli scienziati, ma mai era stato filmato prima d’ora quel che ha osservato Kirby: «Ciò che ho ripreso – ha detto – non è un fenomeno raro, ma qualcosa che si può osservare frequentemente mettendo dell’acqua di mare con del plancton sotto un microscopio».
La maggior parte delle fibre sintetiche arriva dal lavaggio dei vestiti, in quanto sia le lavatrici che gli impianti di depurazione delle acque reflue non possiedono filtri adatti a bloccarli. Le fibre, tra l’altro, si comportano come piccole spugne, così passando dalle nostre case ai corsi d’acqua e infine agli oceani assorbono e attraggono le sostanze chimiche che le circondano, come oli per motori e pesticidi. Alla fine poi, entrano nella catena alimentare e possono arrivare nei pesci sulle nostre tavole. Spiega Stiv Wilson della 'The Story of Stuff', un’associazione che cerca di portare alla luce il problema: «La sua portata è immensa, in quanto solo negli Stati Uniti si stima che vi siano 89 milioni di lavatrici che fanno una media di 9 carichi di bucato alla settimana. Ogni carico può emettere da 1.900 a 200.000 fibre per volta, uno scenario da incubo». Ci si può chiedere che cosa si deve fare per limitare il problema. Secondo i ricercatori si dovrebbe agire su vari fronti.
Da un lato sarebbe necessario che le industrie che costruiscono lavatrici mettano filtri abbastanza sottili da catturare le fibre, allo stesso modo sarebbe necessario che anche gli impianti per il trattamento delle acque reflue introducano filtri per impedire alle fibre di entrare nelle falde o nei fiumi. Un terzo passo sarebbe quello di coinvolgere i produttori di abbigliamento perché trovino soluzioni affinché si riduca al minimo la perdita di fibre durante il lavaggio. Le microfibre sono solo uno degli ultimi problemi che stanno venendo alla luce in questi anni. Un altro è stato recentemente scoperto da una ricerca dell’Iunc, l’Unione mondiale per la conservazione della natura. Si è manifestato all’esame dei dati di sette grandi aree marine del pianeta sottoposte ad analisi al fine di elaborare un modello che dia modo di monitorare le principali sorgenti dei 9,5 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno fi- niscono negli oceani. Il risultato, a sorpresa, è stato che una percentuale compresa tra il 15 e il 31 per cento del materiale plastico proviene dall’abrasione dei pneumatici e, ulteriore conferma, dal degrado di tessuti sintetici rilasciati durante il lavaggio. La parte sintetica dei pneumatici costituisce circa il 60%. Spiega Inger Andersen, Direttore generale dell’Inuc: «Le microplastiche che lasciano i nostri veicoli sulle strade sono praticamente indistruttibili. Non bisogna pensare che l’abrasione dei pneumatici si verifichi solo quando si frena o su strade particolarmente sconnesse, in quanto la perdita di microfibre avviene quasi a ogni rotolamento delle ruote». È difficile trovare una soluzione a questo problema.
Forse un esempio da seguire potrebbe essere quello realizzato in Emilia Romagna, dove si sono sperimentati manti stradali realizzati con materiali diversi e non solo catrame, tra cui plastiche recuperate proprio da pneumatici in disuso. Il risultato è stata la realizzazione di una strada che da una decina d’anni a questa parte è ancora in perfetto stato. Il problema delle fibre provenienti dai vestiti e dai pneumatici non deve distogliere tuttavia lo sguardo da quello della plastica in generale, un problema che interessa fortemente anche il Mar Mediterraneo. Un’analisi realizzata pochi mesi or sono da Legambiente Goletta Verde ha messo in luce che la densità media dei rifiuti nel mare che circonda l’Italia è di 58 oggetti per chilometro quadrato, con il Mar Tirreno detentore del record, con 62 rifiuti per chilometro quadrato. Di tutti questi il 96% è costituito da oggetti di plastica. Buste, teli, reti e lenze sono ai primi posti, mentre sono diminuiti rispetto al passato bottiglie, tappi e cassette. Da un’analisi dei materiali recuperati e sottoposti all’Enea per un’indagine si è scoperto che una frazione compresa tra l’85 e 94 per cento delle plastiche sono costituite di 'polimeri termoplastici', in prevalenza 'polipropilene' e 'polietilene', materiali che potrebbero essere facilmente rimodellati e riciclati se sottoposti a semplice riscaldamento.