Scherma. Il campione di spada Pizzo a caccia dell'oro di Rio
C'è un’iscrizione sulla Porta Ferdinandea di Catania: «Melior de cinere surgo» (“Rinasco dalle [mie] ceneri ancor più bella”). Risale al XVIII secolo e fa riferimento alla capacità dei catanesi di rialzarsi sempre dopo ogni terremoto e distruzione. «La mia vita è sempre stata così, per questo ho voluto tatuarmi la frase della mia città sul braccio». Paolo Pizzo, trentatré anni, campione mondiale di spada nel 2011, schermidore dell’Aeronautica Militare, sarà con la Nazionale italiana alle Olimpiadi di Rio a caccia di quell’alloro che manca a una carriera incredibile. Una vita a menar fendenti, con la forza e la maturità oggi di chi sa di averne schivato uno che poteva essere fatale. A tredici anni infatti è stato costretto a salire su un’altra pedana per sconfiggere un avversario che appariva invincibile: un tumore al cervello. Una storia da brividi raccontata ora nei particolari nel libro autobiografico con Maurizio Nicita La stoccata vincente. Come ho sconfitto il cancro e raggiunto il mio sogno (Sperling & Kupfer, pagine 156, euro 17,00).Una vicenda che ha tenuto nascosta a lungo. «L’ho rivelata soltanto nel 2011, dopo aver vinto il titolo mondiale individuale proprio a Catania. Fu uno sfogo spontaneo, non volevo fare del sensazionalismo. Mi son guardato indietro e ho ripensato a quei momenti terribili quando ero ancora ragazzino…».Quali erano i sintomi?«Avevo delle crisi epilettiche molto aggressive e progressive, in numero e intensità, che mi portavano quasi a perdere coscienza. Erano dovute proprio a quella forma tumorale. Però mi accorgevo prima dei sintomi, per cui mi andavo a nascondere, l’ho fatto per tanti mesi. Solo quando mi scoprì mia sorella dovetti smettere di mentire e andare dal medico. A quattordici anni mi operai e la guarigione fu anche abbastanza repentina. La scherma era sconsigliata per questo tipo di tumore, ma fortunatamente sono tornato presto in palestra».Ha pensato di non farcela?«Per mesi interi. Ho una spiritualità tutta mia. Ma non esito a riconoscere che in quei giorni è avvenuto qualcosa di molto grande, più forte della mia volontà. Non so chi ha messo una mano su di me e mi ha salvato».Dopo la guarigione la scalata fino a diventare il numero uno. Del resto la scherma per lei è uno sport di famiglia. «Merito di mio nonno Paolo, grande sportivo: trasmise questa passione a mio padre, il quale mi incoraggiò a provare la scherma già alle scuole elementari. Da bambino guardavo sempre lo sceneggiato di Sandokan e mi affascinava la sua figura di eroe buono e combattente. Inconsciamente magari ero già proiettato verso la scherma. Ma per la mia carriera devo tutto al mio maestro, Oleg Pouzanov, scomparso l’anno scorso: un giorno spero di essere anch’io un bravo allenatore come lui, che parlava poco ed era stimato da tutti».È cresciuto col mito di Sandokan, ma l’esordio in pedana non fu proprio da impavido.«È vero, avevo sette anni e me la son fatta letteralmente addosso… Un episodio che non dimentico, ma fa capire quanta emozione ho pro- vato e quanta ne riservi la scherma, una disciplina davvero unica che ti fa crescere anche come uomo. Ha poi una complessità di movimenti e di tecnica che altri sport non hanno».Com’è la giornata di uno schermidore?«In vista dei grandi appuntamenti come le Olimpiadi ci alleniamo anche dalle 8 alle 22.30 senza stop, sia individualmente sia in squadra; alterniamo preparazione fisica, lezioni di tecnica col maestro, pesi e allenamenti con il mental coach. Buona parte della giornata è dedicata anche ad analizzare i video dell’ avversario: è un po’ come studiare Tyson, capire in quali momenti attaccare e scoprire i suoi punti deboli».L’oro a Catania nel 2011 è il vertice della sua carriera?«Sì, ma non dimentico l’argento individuale agli Europei del 2014 a Strasburgo: venivo da mesi senza risultati e tanti infortuni, è stato un ulteriore atto di rinascita. Poi, certo, anche l’argento nella spada a squadre a giugno: ma non c’è stato tempo di goderselo, siamo già concentrati su Rio. Confido molto sulla gara a squadre e comunque miro a un podio olimpico, l’unico successo che mi manca. Un italiano che fa scherma non può non pensare alle medaglie e io non sono uno che punta molto a partecipare».La Nazionale ci riserverà altre gioie anche ai Giochi di Rio?«Credo proprio di sì. Purtroppo ci hanno tolto due potenziali medaglie (fioretto femminile a squadre e sciabola maschile a squadre) perché a rotazione alle Olimpiadi due armi non possono gareggiare, per distribuire medaglie anche ad altri sport. Ma abbiamo una squadra giovane, con ragazzi che a livello internazionale hanno già vinto tutto. Segno di una tradizione italiana indiscutibile e indistruttibile. Non è un caso se abbiamo grandi vivai: in tutte le città italiane, da nord a sud, c’è sempre almeno una palestra per la scherma».Esiste il doping in questo sport?«Per la mia esperienza, no. I controlli sono martellanti, non è una vita questa, ma un antidoping continuo... È stato per noi un fulmine a ciel sereno il caso degli schermidori russi, anche perché nel nostro sport non ci sono grandi ritorni economici. In Italia siamo fortunati, prendiamo uno stipendio base da atleti nazionali, anche se non basta per crearti una famiglia e infatti molti di noi continuano a studiare. Però è già tanto rispetto a tanti ragazzi laureati e plurilaureati oggi a spasso».A Rio avrà dei tifosi d’eccezione.«Sì sono coinvolto in un progetto per ragazzi autistici. Verranno con noi in Brasile. Aver avuto la possibilità di incrociare le lame con loro è stato eccezionale: vederli sorridere è un’emozione che non riesco a descrivere con le parole. Io so di essere molto fortunato per come sono andate le cose nella mia adolescenza e credo di essere stato rimesso in piedi per trasmettere solidarietà e condividere la sofferenza degli altri, non solo la gioia».Una parte importante del libro è dedicata a sua moglie.«Se non ci fosse stata lei probabilmente avrei mollato da un pezzo. A trent’anni non hai più la voglia che avevi a diciotto. Condividiamo insieme il sogno di una famiglia e dei figli a cui vorrei trasmettere quanto mi è stato insegnato dai miei: nella vita le difficoltà ci sono per tutti e magari ti colgono all’improvviso. Ma bisogna continuare a lottare, senza arrendersi mai».