Prospettive. Pizzaballa: «In Terra Santa il Vangelo è incontrarsi parlando di pace»
Pierbattista Pizzaballa
Anticipiamo un estratto dalla postfazione del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, al libro di fra Massimo Fusarelli, Francesco d’Assisi. Una vita inquieta, in libreria da oggi per Bur Rizzoli.
«La pazzia del Vangelo non vince i poteri di questo mondo.» È uno dei tanti passaggi significativi di questo testo che ho potuto leggere con gusto, in giorni tremendi per la Terrasanta, lacerata ancora una volta da un conflitto tra i più duri degli ultimi tempi. Purtroppo, sembra non essere cambiato molto in questa Terra dal tempo in cui la visitò il Poverello di Assisi: «So che in Terrasanta, dov’è nato, vissuto e morto il Principe della pace, questa non c’è, è ferita da tutti...». È così ancora oggi: la pace, di cui tutti parliamo, sembra essere la grande estranea di questo tempo. E avremmo bisogno anche oggi di un pazzo che, come il Poverello di Assisi, voglia «andare laggiù a predicarla e, se possibile, incontrare il sultano d’Egitto per annunciargli il Vangelo... e annunciare la pace anche qui».
Sapeva Francesco che probabilmente il Vangelo non avrebbe cambiato le sorti decise dai potenti del suo mondo, ma sarebbe stato comunque un seme gettato nel cuore degli uomini, che poco alla volta, in tempi e modi che non possediamo, avrebbe portato il suo frutto. Perché «il Vangelo è tutto» e «il mondo è nostro, se non ci appesantiamo con i pensieri terreni... È il prezzo da pagare per la felicità». Con questa consapevolezza Francesco è stato capace di varcare confini mentali, prima ancora che religiosi, politici o militari. Non gli sembrò strano, quindi, decidere di incontrare il sultano, il nemico da eliminare. Una pazzia, in effetti, per quei tempi, che però ancora oggi ricordiamo e celebriamo. Perché quella che chiamiamo pazzia, in fondo, è anche il desiderio che abita il cuore di ogni uomo, in ogni tempo: il desiderio della pace.
Il viaggio di Francesco in Terrasanta, dicevamo, non ha risolto alcuno dei problemi politici del tempo. Ma ha indicato un metodo, che ancora oggi è la via maestra per chi vuole costruire contesti di pace, anche qui, oggi, nel tormentato e conflittuale Medio Oriente: l’incontro. Promuovere, ricercare, costruire, custodire il desiderio di incontro. In fondo, se ci pensiamo bene, vuol dire vivere seriamente il Vangelo, e assumerlo come criterio fondamentale per le scelte di vita. Come lo fu per Francesco.
Il serio desiderio di incontro comporta necessariamente dare fiducia, accettare di fare posto a un’altra voce oltre che alla propria. Non di rado richiede anche di rinunciare o mettere da parte qualcosa di proprio, una visione, un’opinione, un’attesa...
In questi nostri contesti di conflitto quasi permanente, dove la religione, la politica, l’identità nazionale si mischiano continuamente, creando così un ginepraio quasi inestricabile, incontrarsi richiede coraggio e pazzia. Di generazione in generazione, infatti, narrazioni diverse e opposte le une alle altre alimentano il sospetto e la sfiducia reciproca tra gli abitanti di questa Terra, e coltivano nella coscienza di tanti lo spirito di conquista, di violenza, di disprezzo per chi è diverso da sé. Sono narrazioni che inquinano il cuore di tanti, che a causa di tutto ciò faticano a comprendere ogni possibile proposta di incontro, e confondono sempre più spesso la pace con la vittoria.
Era l’equivoco del tempo di Francesco, ed è anche il nostro oggi. Forse non solo in Medio Oriente.
La pace, dunque, quella vera, quella costruita su un sincero desiderio di incontro, di accoglienza e di fraternità, richiede necessariamente anche un cammino di conversione. Si tratta di cambiare il proprio modo di pensare, di liberare il cuore dallo spirito di violenza, conquista e rivalsa. La pace esige anche che si faccia verità nelle relazioni, che si arrivi a riconoscere il male compiuto e subito, cosa mai facile e sempre dolorosa. Ma la verità diventa completa quando incontra anche il perdono. Sono necessari l’uno all’altra.
Sono sempre più convinto che in questo contesto così complesso la vocazione e la missione principale della piccola comunità cristiana e, in primis, dei figli di san Francesco che da secoli la abitano sia proprio questa: custodire il desiderio di incontro, coltivare la libertà nei confronti di tutti, superare i confini etnici, religiosi e identitari di vario genere che, pur non scritti, sono tuttavia rigidissimamente scritti nella coscienza di queste popolazioni. Proprio come fece Francesco d’Assisi. Non si tratta di cancellare le proprie appartenenze, che sono comunque necessarie. Ma di non renderle solamente delle fortezze inespugnabili, baluardi inaccessibili, presidi da difendere.
Sono tanti gli uomini e le donne di ogni fede che ancora oggi, anche qui in questa Terra martoriata, sono capaci di una simile testimonianza. Ma ci serve anche la testimonianza di una comunità, che sappia vivere, al suo interno innanzitutto, e in contesti aperti e condivisi, questa libertà o, per restare in tema, questo coraggio e pazzia, che è poi la stessa cosa. E la nostra piccola comunità cristiana, senza potere e politicamente irrilevante, potrebbe fare la differenza. È il mio sogno ed è la pazzia che vorrei condividere con tutta questa piccola e amata Chiesa di Gerusalemme.
La differenza cristiana, infatti, non consiste nelle nostre forze, nelle nostre proprietà, nel nostro eventuale prestigio. La differenza cristiana sta nelle nostre scelte di riconciliazione, di dialogo, di servizio, di vicinanza, di pace. Per noi l’altro non è un rivale, è un fratello. Per noi l’identità cristiana non è un baluardo da difendere, ma una casa ospitale e una porta aperta sul mistero di Dio e dell’uomo, dove tutti sono benvenuti. Noi, con Cristo, siamo per tutti. Il Poverello di Assisi, otto secoli fa, ci ha mostrato che questa pazzia è comunque possibile. Sta a noi, ora, decidere se scegliere con coraggio di vivere questa evangelica follia.