Novecento. Pirandello e la tessera fascista presa per il delitto Matteotti
Luigi Pirandello
Pochi mesi dopo la Marcia su Roma, a Cesare Sobrero che gli chiedeva la sua opinione sul fascismo Pirandello rispondeva così in una intervista tutt’ora sconosciuta: «Ma io non mi occupo di politica. Sono un letterato, uno scrittore, voglio rimanere estraneo alla politica, ma non posso fare a meno di riconoscere le qualità straordinarie di cui è dotato Mussolini. Non lo conosco, non gli ho mai parlato, ma ammiro il tono di vita e di disciplina nazionale che ha saputo dare al paese» (“Parla Pirandello”, “La Stampa”, 21 ottobre 1923). Stessa cosa – «sono apolitico» – dichiarerà a Giuseppe Villaroel per “Il Giornale d’Italia” l’8 maggio del ’24. Ciononostante, tra un’intervista e l’altra, non era difficile cogliere le sue simpatie per il fascismo, tant’è che V. E. Leno, pseudonimo dietro il quale sul “Becco giallo” si nascondeva Corrado Alvaro, già il 23 marzo del 1924 lo aveva additato come «filofascista». Poi il colpo di scena. La sera del 17 settembre l’agenzia Stefani dirama un comunicato: Luigi Pirandello ha chiesto con una lettera al Duce di iscriversi al fascio. Il 18 mattina la notizia è su tutti i giornali.
Cos’era successo perché Pirandello si risolvesse a schierarsi apertamente? Ebbene nel lasso di tempo che va da maggio a settembre, in un clima appesantito e avvelenato da una catena di intimidazioni, di violenze e di sangue, due delitti politici avevano scosso il Paese. Il 10 giugno il deputato socialista unitario Giacomo Matteotti veniva rapito e ucciso da un gruppo di squadristi fascisti, mentre il 12 settembre l’operaio Giovanni Corvi, per vendicare Matteotti, assassinava su un tram a Roma il deputato fascista Armando Casalini, sparandogli tre colpi di rivoltella dinanzi agli occhi della figlioletta. Il Paese era al bivio, nonostante i ripetuti appelli provenienti da più parti di «disarmare gli spiriti».
Fu proprio il giorno del delitto Casalini che Pirandello nella sua abitazione di via Bosio a Roma firmò la lettera senza apporvi alcuna data e la consegnò a Guido Milelli che a sua volta, il 14 settembre, la portò al Duce prima che partisse per Napoli. I partiti d’opposizione, disorientati, accusarono il colpo. E poiché la richiesta di Pirandello cadeva proprio a ridosso del 20 settembre, data nella quale saranno ufficializzate le nomine senatoriali da parte del Governo, s’inventeranno, per svilire il gesto di Pirandello, il mercimonio della tessera in cambio del laticlavio. Giovanni Amendola tra tutti esce col violento corsivo anonimo sul “Mondo” del 25 settembre dal titolo “Un uomo volgare”, apostrofandolo «accattone». Un’accusa di opportunismo che per la verità non stava affatto in piedi, se non altro perché alla richiesta della tessera non era di fatto seguito il seggio senatoriale. C’era stato insomma il do ma non il des. Dov’era lo scambio?
Non c’era né poteva esserci, perché Pirandello, ben sapendo il clamore che avrebbe suscitato, aveva preventivamente condizionato la sua iscrizione alla esclusione del suo nome dalla lista dei probabili senatori, proprio per non dare adito a nessuna strumentalizzazione. E poi basta leggere con attenzione il contenuto della lettera per convincersi della portata squisitamente politica di quella richiesta. Questo il testo: «Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera. Roma, 17 settembre 1924. Luigi Pirandello».
Che significa «il momento più proprio»? Sta qui la chiave di lettura del gesto di Pirandello. Può mai questo «momento più proprio» riferirsi alla nomina dei senatori? Sarebbe stupido pensarlo. E più ancora sarebbe un oltraggio all’intelligenza di Pirandello, il quale così rispose ai suoi calunniatori con una lettera pubblicata il 3 ottobre 1924 su “L’Idea Nazionale”: «Chi mi conosce sa bene che io non sono “un uomo volgare”. Chi non mi conosce, poteva facilmente considerare che sarei stato, più che un uomo volgare, un uomo inverosimilmente stupido, se per la vanità di vedermi compreso nella lista dei nuovi senatori, proprio alla vigilia fossi andato a scrivermi al Partito Nazionale Fascista. Mi pare d’aver veramente il diritto di ritenere stupidi piuttosto tutti coloro che non han saputo fare una così ovvia considerazione e han potuto prestar fede a una tale scimunitaggine».
Il trafiletto con cui il quotidiano "L'Impero" il 19 settembre diede notizia dell'adesione di Pirandello al PNF - Archivio Meli
Quel momento si chiama invece Giacomo Matteotti, il cui cadavere aveva scatenato proteste di piazza e un fuggi fuggi generale dalle file dei fascisti. È proprio quel frangente politico, nel quale Mussolini è alle corde, che spinge anzi impone a Pirandello di uscire allo scoperto e dichiararsi pubblicamente fascista, lui che voleva rimanere estraneo alla politica. Matteotti d’un tratto aveva cambiato tutto o, per meglio dire, quel ch’era seguito dopo il delitto Matteotti, cioè «l’oscena speculazione compiuta sul cadavere del deputato unitario». Queste le motivazioni addotte dal commediografo agrigentino nell’intervista a Telesio Interlandi, “Perché sono fascista”, apparsa su “L’Impero” del 23 settembre. Né è da mettere in seconda linea fra le cause che determinarono il suo gesto, «il bisogno di pubblicamente reagire alle verbose e inconsistenti manifestazioni di alcuni letterati che ripongono la salute della patria nel loro vocabolario più che nei fatti degli uomini di governo». E qui il riferimento è al manifesto della “Lega Italica”, il movimento costituito da Sem Benelli, fascista della prima ora, passato dopo il delitto Matteotti nelle file dell’opposizione. Fu proprio questo voltafaccia del Benelli che disgustò talmente Pirandello da indurlo a rompere gli indugi. Cosicché, quando tutti si defilavano, lui, Pirandello, dall’alto della sua notorietà internazionale trovò «il coraggio» e – perché no? – la spocchia di sfidare l’opposizione governativa, offrendo la sua testimonianza a favore di Mussolini. Disse bene “Il Popolo d’Italia” che la sua adesione fu una sentenza «storica», perché Pirandello non è né può essere considerato un cittadino qualsiasi. Tra Matteotti e Mussolini, Pirandello scelse Mussolini. Perché scandalizzarsi? La sua fu dunque una scelta prettamente politica, checché se ne dica. Glielo riconobbe perfino Mussolini, l’«amico» Mussolini, che così si confesserà dopo la scomparsa del grande commediografo a Yvon De Begnac, l’autore dei Taccuini mussoliniani (Il Mulino, 1990): «Anni or sono, per la prima volta, vi dissi, Yvon, della fedeltà concreta di Pirandello alla mia persona, e vi narrai come egli fu – senza forse - il solo italiano decisosi, all’indomani della tragedia Matteotti, ad uscire dalla comoda tana dell’”afascismo” per dichiararsi vicino alla mia amarezza di capo di una rivoluzione pugnalata alla schiena. Quel gesto di solidarietà mi rafforzò nel volere che nulla della rivoluzione andasse perduto. Oggi capisco quanto fosse stata nel carattere del pensiero pirandelliano quella sua determinazione. Credevo – prima di allora – che Pirandello fosse il poeta dell’indecisione. E, invece, questo mio amico eminente è il poeta della certezza, colui che ci toglie dall’indecisione dimostrando quanto sia inutile analizzare quel che è certo».
Questo il Pirandello che Mussolini consegna alla storia. Il resto è letteratura.