Agorà

Letteratura. L'infinita disputa sul fascismo di Pirandello

Massimo Onofri domenica 7 gennaio 2018

Mi chiedo: Pirandello è stato mai davvero assimilato dalla cultura italiana, quella egemone e più accreditata? Malgrado il Nobel per la letteratura, aggiungo: e nonostante il tempestivo e prodigioso successo internazionale come drammaturgo, sempre difficile per chi nasce in Italia. Il mitizzato Renato Serra, nelle sue celeberrime Lettere (1914), lo confondeva, dentro un’improbabile e sbiadita cartolina d’epoca, con i dimenticatissimi Amalia Guglielminetti, Carola Prosperi, Luciano Zuccoli e Virgilio Brocchi. Il rifiuto di Benedetto Croce, poi, sarebbe stato irrevocabile: consegnando il siciliano alla dimensione di «mezzo scrittore» e «mezzo filosofo», nel segno d’una doppia inadeguatezza, alla letteratura e alla filosofia. Gianfranco Contini, nella Letteratura dell’Italia unita 1861-1968 (1968) lo avrebbe antologizzato solo perché troppo eclatante sarebbe stato il silenzio (che invece riservò a tre altri grandi conterranei: De Roberto, Brancati e Sciascia), riducendolo all’atto unico Sagra del Signore della nave, ma per proclamare l’espressività solo «regionale» della lingua e la vocazione macchiettistica dei personaggi. Cesare Garboli, poi, l’ha di fatto ignorato: in virtù della diffidenza insuperabile, io credo, per un’arte che nasce dalle idee - che in Pirandello furono dominanti e debordanti -, invece che dal gusto e dalla sensibilità, specialmente se abnorme.

L’attenzione di grandissimi outsiders come Giacomo Debenedetti e Giovanni Macchia aiutò sino a un certo punto Pirandello, mentre ritengo che il consenziente Gramsci – il quale lo studiava in carcere sulla misura della dialettalità –, tanto importante per gli sviluppi della critica marxista del secondo dopoguerra, abbia contribuito più a limitarlo, che non a sollevarlo sugli scranni più alti del pantheon nazionale. Ma c’è dell’altro a far sì che su Pirandello continui a gravare, non dico una censura, ma una qualche risentita o perplessa freddezza. Sto parlando della sua adesione al fascismo: che, per altro, avvenne, non senza scandalo e col consueto spirito di contraddizione, subito dopo il delitto Matteotti, quando Mussolini conosceva la sua ora di maggiore isolamento. Scriveva Leonardo Sciascia in Nero su nero (1979): «Qualcuno se ne disturba e turba, qualche altro lo considera una mancanza di rispetto e di gusto. Ma perché?». E più avanti, dopo aver sottolineato che le cose sono quel che sono, e che vanno ricordate perché ci servano: «Nell’eterno fascismo italiano – anche quando non si chiama fascismo – Pirandello è stato fascista». E poi la stoccata: «Chi più è disposto a scagliare la sua pietra contro Pirandello, si auguri che non gli offrano mai lo spadino e la feluca di accademico, ché forse correrebbe, spingendo e sgomitando, a prenderli». Con questa sciasciana disposizione, testimoniata anche in epigrafe (e sintonica con la passione di altri insostituibili pirandellisti come Nino Borsellino e Luigi Se- dita), Pietro Milone sulla questione, si rivela imprescindibile con il suo libro: Pirandello Accademico d’Italia e il “volontario esilio” (Metauro. Pagine 392. Euro 28,00).

Fascismo, vinti, Giganti. Un libro che – soprattutto dopo la pubblicazione dei carteggi di Pirandello con Marta Abba e col figlio Stefano – s’avvale d’un ulteriore e inedito lavoro di ricerca negli archivi, con un fine che, però, non è soltanto storico- documentale, ma soprattutto critico-letterario, in vista, cioè dell’interpretazione dei testi, con particolare attenzione – ma non solo – al celebre Discorso su Verga – nella versione catanese del 1920 (per gli 80 anni del grande siciliano), nelle correzioni del 1929 per Studi verghiani e in quella del 1931 per l’Accademia – e ai Giganti della montagna (1931-’36), rimasti com’è noto incompiuti, a complicare l’enigmaticità d’un finale non sciolto. Pietro Milone, che conlo testualizza con grande dedizione ogni singola situazione e comportamento di Pirandello, ne è alla fine convinto: seppure non manchino momenti «di consapevole e deliberata doppiezza, moralmente ambigua», l’ambivalenza dei rapporti dello scrittore col regime sarebbe da ricondurre soprattutto alla natura della sua opera, «critico-distruttiva, contestativa, tragica » (per usare le insuperate parole di Luigi Baldacci), del tutto refrattaria insomma all’ideologia fascista, non per caso ritenuta da molti intellettuali di regime quella d’un «antifascista camuffato, distruttore e pessimista».

In tal senso, Milone punta molto sulla dimensione metafisica (e dell’«Oltre») dello scrittore, sul martirio di Ilse nei Giganti «in nome della fede nell’arte», su quel passaggio del Discorso su Verga perentoriamente ribadito, nel 1931, davanti agli accademici, che mette capo all’idea dell’assoluta autonomia dell’arte: per sottrarre Pirandel- definitivamente alle facili accuse di chi, nel fronte composto da fascisti spesso convertiti all’antifascismo, lo usava come «ombrello», in cerca della propria assoluzione. Per fare un solo esempio, a giustificazione della non equipollenza delle due versioni del Discorso su Verga, smentendo così la tesi del più autorevole editore del testo, Manlio Lo Vecchio Musti – che anche io seguii in una ristampa da me curata –, basterebbero le considerazioni di Milone dedicate al rapporto tra il discorso del 1931 con un precedente saggio di Bottai in cui si rivendicava il nesso tra Verga e D’Annunzio che Pirandello invece, in chiave antidannunziana, negava: là dove si arriva a dimostrare, per quelle parole pronunciate davanti a tanti fanatici adoratori del vate, una posizione, non di supino asservimento, ma di grande coraggio. Per onorare a questo libro da rileggere pagina per pagina, bisognerebbe andare nel dettaglio. Mi limito ad aggiungere che esso nasce dal felicissimo concorso di ricognizione documentale, analisi filologica, critica letteraria, biografia, storia della cultura e del costume, quadro d’epoca, come testimoniano, per dire, le belle pagine dedicate all’accademico d’Italia Guglielmo Marconi.