Novecento. La scelta di Pio XII sulla Shoah: prudenza ma non silenzio
Papa Pio XII davanti al microfono per un radiomessaggio
Probabilmente sarà rimasto deluso chi si aspettava che in seguito all’apertura degli archivi vaticani saltassero fuori documenti per far luce finalmente e definitivamente sul “silenzio” di Pio XII in merito alla Shoah. Ma a parte il fatto che tre anni (tanti ne sono passati dalla decisione di papa Francesco) sono un periodo piuttosto breve data la mole dei documenti da esaminare, non va dimenticato che quasi mai la ricerca storica procede per folgoranti scoperte. Più spesso si va avanti pezzo a pezzo, come in un gigantesco puzzle, ricostruendo il contesto insieme alle azioni dei protagonisti, perché è proprio dal contesto, cioè dalla storicizzazione, che il più delle volte possono derivare elementi importanti per comprendere anche i singoli enigmi.
Questo è anche il metodo utilizzato dal convegno che si è chiuso ieri alla Pontificia Università Gregoria sui “Nuovi documenti del pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane. Un dialogo tra storici e teologi”. Tre giornate intense, suddivise in cinque sessioni con oltre una ventina di interventi in cui si è infatti cercato di delineare un quadro più ampio: il ruolo della diplomazia vaticana, le altre autorità, l’opera dei nunzi e quella delle singole comunità (dalle parrocchie ai conventi, ad esempio). In sostanza mettere insieme quanti più tasselli del puzzle, non tanto per arrivare a un giudizio su Pio XII, quanto «per comprenderne - come affermato da uno dei principali organizzatori, Massimo Gargiulo, direttore del Centro “Cardinale Bea” per gli studi giudaici - i comportamenti in uno scenario più ampio all’interno del quale egli aveva un ruolo centrale».
L’obiettivo, si può dire, è stato ampiamente centrato. Perché a ben guardare anche sul punto specifico del “silenzio” di Pio XII qualche passa avanti c’è stato. E abbastanza significativo. Dato che in realtà silenzio totale non è stato. Come ha ricordato nella sua relazione Giovanni Coco dell’Archivio Apostolico Vaticano, «nel Radiomessaggio natalizio del 1942 papa Pacelli aggiunse volontariamente la frase sulle “centinaia di migliaia di persone” che “per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo deperimento”». Frase solo allusiva, ma in cui spicca la parola stirpe, che per esplicita ammissione di Pio XII in una lettera al vescovo di Berlino, Konrad von Preysing, si riferiva proprio al popolo ebraico, ha rimarcato Coco. Frase oltre tutto ripetuta a distanza di sei mesi, dato che «nel discorso al Sacro Collegio del 2 giugno 1943, Pio XII aggiunse un passaggio sugli ebrei, coloro che “per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe” sono “destinati talora, anche senza propria colpa, a costrizioni sterminatrici”». Quelle frasi, ha notato Coco, «avrebbero rappresentato il punto massimo della pubblica protesta papale sulla Shoah». Ma passarono sotto silenzio, anche perché «l’allusione era divenuta ormai stringente e la stampa italiana, in ossequio al Regime fascista, le ignorò completamente».
Tutto ciò può aiutare a comprendere sempre meglio le ragioni di una scelta, che vanno indagate non tanto e non solo con la sensibilità odierna, ma anche e soprattutto alla luce del sentire dell’epoca. Sgombrando il campo da quelle che il cardinale Pietro Parolin ha definito «casi di disonestà scientifica che diventano “manipolazione storica” quando i documenti vengono negligentemente o deliberatamente nascosti». Il segretario di Stato, intervenuto in apertura del convegno, ha citato ad esempio la risposta ufficiale del suo predecessore nel ruolo all’epoca della Prima guerra mondiale, Pietro Gasparri, all’American Jewish Committee di New York e agli agli ebrei ashkenaziti di Gerusalemme nel 1919. «Questi documenti - ha detto il porporato, scoperti solo di recente, affermano come i cattolici dovrebbero considerare gli ebrei: “Sono nostri fratelli” e “il popolo ebraico deve essere considerato fratello come qualunque altro popolo del mondo”. Vale la pena notare - ha aggiunto Parolin - che il futuro papa Pio XII, allora segretario della Sacra Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, contribuì personalmente alla genesi e alla stesura questi testi. Essi dipingono quindi un’immagine del futuro Pontefice molto diversa da quella generalmente conosciuta».
Recenti scoperte «negli archivi vaticani e in altri archivi - ha sottolineato ancora Parolin - ci hanno reso più facile comprendere come i documenti storici furono manipolati nel dopoguerra, con il risultato che i cattolici nei movimenti di resistenza furono menzionati poco o nulla». Altre “sorprese”, dunque, potrebbero arrivare in un futuro più o meno prossimo dal lavoro degli storici e degli archivisti. Come ad esempio è avvenuto di recente con la pubblicazione dell’elenco di 3.200 ebrei romani salvati in strutture ecclesiastiche di Roma tra il 1943 e il 1944 e di una lettera del 14 dicembre 1942 del gesuita tedesco Lothar König al segretario particolare del Papa, Robert Leiber, in cui si parla del forno crematorio delle SS nel lager di Bełzec.
Qui abbiamo anche il classico esempio di due documenti apparentemente di segno contrario. Un Papa che aiuta nel primo caso (e anche Parolin nel convegno della Gregoriana ha sottolineato come «un numero considerevole di cattolici, per convinzione religiosa, ma anche per obbedienza al Papa, difesero gli ebrei con tutti mezzi» e con gravi rischi). Un Papa informato che tace, o per lo meno non denuncia esplicitamente, nel secondo (il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni ha sostenuto che durante il pontificato di Pio XII «le sofferenze del popolo ebraico erano teologicamente giustificate»).
In realtà questa dicotomia può ricevere nuova luce proprio allargando il campo di indagine, come è stato fatto nel convegno. Giovanni Coco ha ricordato che Pio XII applicò in pratica «la lezione appresa in gioventù dal cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, segretario di Stato di Leone XIII», il quale nel 1912 sosteneva che «in una fase violenta di persecuzione la tradizione della Santa Sede è di salvare i principi, senza prendere provvedimenti necessari, i quali potrebbero dar pretesto al persecutore per infierire maggiormente». La conferma, secondo lo studioso, sta nel discorso fatto da papa Pacelli nel 1940 all’ambasciatore italiano Dino Alfieri: «Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e solo ci trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura». Il caso delle proteste dei vescovi olandesi nel 1942, cui seguì la reazione nazista con la deportazione, secondo alcune stime, di 694 ebrei cattolici e di 850 ebrei protestanti, sarebbe stata la tragica riprova delle parole del Pontefice.
A questo si deve aggiungere che un altro punto di riferimento per Pio XII era il cardinale Rafael Merry del Val, segretario di Stato di Pio X. Il porporato (è stato sempre Coco a ricordarlo) sosteneva che in circostanze di guerra «per un giudizio pubblico del papa occorrerebbe premettere un’inchiesta regolare; la sua autorità non può essere esposta». In sostanza «qualsiasi intervento di carattere “politico” a favore dei non-cristiani era del tutto estraneo alla diplomazia vaticana». Tutt’al più «l’aiuto del Papa era circoscritto solo ad alcuni casi eccezionali soprattutto in ambito caritativo e assistenziale». È la conferma delle linee di azione della Santa Sede in quel periodo. Agire sottotraccia per aiutare gli ebrei perseguitati, piuttosto che prendere posizioni pubbliche dagli esiti controproducenti. Una scelta operata non senza dubbi e intima sofferenza, se è vero che già nell’ottobre del 1941 papa Pacelli chiedeva a monsignor Roncalli (futuro Giovanni XXIII) «se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male».
Certo, resta la pagina dolorosa delle deportazioni nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943. «A lungo - ha fatto notare Coco - sono stati cercati documenti che spiegassero il senso di questo silenzio». Secondo l’archivista, una risposta può essere trovata nella corrispondenza tra il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che chiedeva di autorizzare una protesta dell’episcopato lombardo contro la persecuzione antiebraica in Italia settentrionale, e monsignor Angelo Dell’Acqua (futuro vicario di Roma sotto Paolo VI) che suggeriva: «Sembra piuttosto consigliabile un’azione confidenziale, tanto più che principi generali sono stati più volte chiaramente esposti dalla Santa Sede. L’esperienza ha dimostrato che pubbliche dichiarazioni non fanno che maggiormente irritare le autorità e danneggiare quindi coloro cui si desidera e si vuole fare del bene».
Siamo in definitiva solo all’inizio del lavoro. Ci vorrà «più di una generazione di storici», notava Parolin al convegno, per ricostruire la vicenda. Ma la strada è tracciata: uscire da interpretazioni soggettive e decontestualizzate, per convincersi che la ricerca storica non può prescindere dalla complessità dei fatti.