Il libro. La salvezza secondo Pilato
Cristo e Pilato nell’“Ecce Homo” di Antonio Ciseri (1821-1891)
Le prime notizie sul Galileo vengono riferite al procuratore da Flavio, suo compagno inseparabile fin dal massacro di Teutoburgo. Flavio non è un romano, ma un gallo: la Chiesa non è ancora nata, ma in qualche modo la Francia è già la figlia primogenita. L’interpretazione strappa un sorriso ad Anne Bernet, autrice di queste Memorie di Ponzio Pilato apparse originariamente nel 1998 e solo ora tradotte da Matilde Amati Calini e Maria Claudia Fossati Bellani per Edizioni Terra Santa (pagine 360, euro 22,00; l’autrice presenta il volume oggi alle 18 a Milano presso la Libreria Terra Santa di via Gherardini 2).
Studiosa di storia oltre che narratrice, la scrittrice ha lasciato pochissimo al caso per questo romanzo che, caso più unico che raro nella lunga vicenda della rivisitazione della figura di Pilato, prova a ricostruire quale sia stata la vita del protagonista prima del fatale incontro con Gesù. «Mancano i documenti per una biografia vera e propria – spiega Anne Bernet – ma questo non significa che le molte lacune non possano essere riempite in modo serio, partendo dalle informazioni su cui disponiamo».
Per esempio?
«Sappiamo che Pilato diventa procuratore della Giudea nel 26 e che per ricoprire quell’incarico bisognava avere almeno quarant’anni. Andando a ritroso possiamo stabilire che, essendo nato attorno al 14 a.C., all’età di circa vent’anni fosse un giovane ufficiale dell’esercito romano. All’epoca l’Impero era impegnato su due fronti, quello orientale in Illiria e quello settentrionale in Germania, dove nell’anno 9 si combatte appunto la battaglia di Teutoburgo, che per Roma è una sconfitta inattesa e bruciante. Il motivo per cui ho voluto fare di Pilato un reduce di Teutorburgo è perché nella sua azione di governo a Gerusalemme si intuisce l’esperienza di un uomo abituato a gestire le difficoltà. Non un eroe, forse, ma di sicuro un funzionario onesto e prudente, la cui mentalità non si esaurisce nel rigore caratteristico del militare».
Da dove nasce questa sua convinzione?
«Dal resoconto evangelico del processo a Gesù, in particolare dal racconto di Giovanni. Si fronteggiano un prigioniero in catene e il dignitario più importante dell’intera regione. Rispetto all’accusato che gli sta davanti Pilato è praticamente onnipotente, eppure non fa pesare la sua condizione, si interessa, pone domande, instaura un dialogo autentico, da pari a pari. È in virtù di questa onestà e direi quasi di questa umiltà che nel libro viene concessa a Pilato la grazia necessaria alla conversione. Ma non è una mia trovata: per una parte consistente della tra- dizione cristiana il procuratore morì martire».
Lei ipotizza che il martirio sia avvenuto a Roma nel 64, durante la persecuzione scatenata da Nerone dopo l’incendio.
«Sì, perché è in quel momento che i cristiani conoscono il martirio. Pilato appartiene alla stessa generazione di quei primi testimoni e che muoia insieme a loro mi sembra plausibile, oltre che profondamente giusto sul piano spirituale».
Nel romanzo, come nella realtà storica, un ruolo determinante è svolto dalle donne, che furono le più pronte a convertirsi.
«Già la prima testimonianza della Risurrezione è affidata alle donne, che credono d’istinto, senza indugiare nel dubbio. Sono loro a trasmettere la fede di generazione in generazione, alimentando la speranza con gesti di carità. Anche nella famiglia di Pilato le donne sono molto importanti. In particolare Procula, sua moglie, che ho immaginato non bella d’aspetto, ma appassionata nella ricerca della verità».
Non lo erano anche i seguaci dei culti misteri tanto diffusi nella Roma di allora?
«Di quei culti e della loro complessità oggi non reanzitutto sta nulla. A un certo punto, nel romanzo, Pilato riporta lo stupore di alcuni catecumeni durante il battesimo da parte di Pietro. Ma come, si dicono, è tutto qui? Sì, la forza del Vangelo sta nella sua semplicità, perché soltanto ciò che è semplice può essere trasmesso nel tempo. In questo il mondo del I secolo è straordinariamente simile al nostro. Tutti, specialmente i giovani, cercano qualcosa che non conoscono. Il compito dei cristiani sta nel testimoniare che la verità esiste e che l’esperienza materiale non esaurisce la ricchezza della realtà».
Il suo Pilato assomiglia un po’ a Giuda come lo hanno rappresentato molti scrittori, non trova?
«In entrambi i casi c’è un gesto odioso, tradimento o condanna, che pure è necessario al compiersi della Redenzione. Certo, qualche tentativo romanzesco di scagionare del tutto Pilato, magari inducendolo ad assolvere Gesù, c’è stato, ma sul piano teologico si tratta di un’assurdità. Il comportamento del procuratore resta comunque diverso da quello di Giuda, il cui vero peccato non è il tradimento, ma la disperazione che lo porta al suicidio. Pilato è uno straniero, fa tutto quello che è in suo potere per salvare il prigioniero della cui innocenza è persuaso, ma per debolezza non riesce a opporsi fino in fondo. Eppure, nella sua fragilità, è uno dei protagonisti della storia della salvezza. Anzi, è proprio lui a mettere in moto la Redenzione. Non dimentichiamo che, al momento del processo, Pilato non è ancora un credente, ma un uomo normale. Onesto, sì, ma solo con se stesso. Si trova in una situazione impossibile e cerca di gestirla come meglio riesce».
Lei scrive che Pilato vorrebbe essere Antigone, ma è destinato a essere Creonte: in che senso?
«Il mondo ha sempre avuto bisogno sia di Creonte, che rappresenta l’ordine da rispettare, sia di Antigone, che incarna la forza e la libertà della coscienza. Nell’antichità il modello dominante era quello della legge. È stato il cristianesimo a realizzare la rivoluzione dell’amore e della compassione. Prima di convertirsi, Pilato non può essere Antigone, deve soltanto attenersi con onestà alla lezione di Creonte».