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TENNIS - L'INTERVISTA. Pietrangeli: «C'era una volta il tennis»

Massimiliano Castellani giovedì 5 settembre 2013
Il capello è bianco candido come il riflesso del Cupolone. Gli occhi az­zurri come il cielo limpido di una Roma malinconicamente romantica (in stile “La Grande bellezza” di Paolo Sorrentino) che ha abbracciato Nico­la Pietrangeli quando era un ragazzi­no dall’italiano incerto («mi chiama­vano “Er Francia” quando giocavo a calcio con le giovanili della Lazio», ri­corda), fuggito con la famiglia da Tu­nisi dove era nato, per scampare alla guerra civile. Il primo tennista italia­no entrato nella Hall Fame, è figlio d’arte, papà Giulio, detto “Monsieur”, all’attività di imprenditore affiancava quella di coloniale e gentiluomo dei “gesti bianchi”. In casa Pietrangeli si parlava anche il francese e il russo, per via dalle nobili origini di mamma An­na, del casato dei De Yourgaince, esu­li fuggiti a loro volta dalla Rivoluzione d’Ottobre. Questo e molto altro, si tro­va dentro l’album di famiglia di Pie­trangeli che l’11 settembre compie 80 anni. Ma lo spirito è quello dell’eter­no ragazzo, ambasciatore ufficiale del tennis italiano, giunto alla soglia di quello che definisce «il compleanno dei miei vent’anni per la quarta volta». Se chiudiamo gli occhi, ascoltandola, più che il campione di tennis sembra di risentire lo stesso timbro di voce di Marcello Mastroianni. «Me lo dicono in tanti e la cosa mi riempie d’orgoglio perché Marcello è stato un grande amico prima che il migliore attore del mondo. Per divertirci ci vestivamo uguali con i suoi vestiti dai colori sgargianti. Ci univa il comune senso della pigrizia». Eppure lei passa per uno dei personaggi più dinamici del nostro sport. «Ho fatto sempre la metà della metà di ciò che potevo fare. Del resto due sono stati i miei principi fondanti: “Lavorerei volentieri... Purtroppo non ne ho il tempo”, l’altro: “Non è importante essere ricchi, ma vivere come se lo si fosse”». Eppure il suo obiet­tivo era lavorare, come rappresen­tante della Lacoste. «Mio padre quando lasciammo la Tunisia perse tutto e per farci man­giare accettò un posto da becchino al cimitero dei francesi. Grazie ai suoi trascorsi da tennista René Laco­ste si ricordò di lui e gli diede la rap­presentanza per vendere le sue ma­glie in Italia. In un anno ne piazzò u­na cifra spaventosa, 280mila. Io vole­vo emularlo, ma lui mi disse: “Nicola non è mestiere per te”. Papà voleva una cosa sola, che giocassi a tennis fino a novant’anni».Aveva visto giusto: le consigliava u­na professione con meno problemi, piena di successi e con possibilità di maggiori guadagni. «Il vero problema fu quando scoprii che l’anno dopo che papà aveva perso la rappresentanza, la Lacoste in Italia vendette un milione di magliette. Se solo avesse firmato una carta per cento lire a capo... Con il tennis ai miei tempi ci si divertiva, venivamo ospitati nei migliori alberghi del mondo, ma la fame era tanta e i soldi pochissi­mi ». Tranne i top player anche i tennisti di oggi pare che non se la passino bene. «Ma no. Ora se entri nei primi 120 del mondo e partecipi a 4 tornei del­lo Slam ti porti a casa sugli 80mila euro a stagione. Se stai tra i primi 60 la cifra raddoppia. Rispetto a me che andavo avanti a panini e coca-cola offerti dall’amico barman Renato dell’Hotel Posta di Cortina, fare que­sto sport rimane un privilegio ben remunerato, all’interno di un movi­mento ancora ricco». Ma il nostro movimento sembra fermo alle due “ere d’oro”: la sua e quella successiva di Adriano Panatta. Poi il buio... «La natura è matrigna, il n.1 del mondo poteva nascere 300 km più a sud, a Como, e chiamarsi “Federelli”, invece, è nato a Berna, in una Svizzera che non ha mai avuto tradizione tennistica, ed è diventato Roger Federer. Il tennis azzurro maschile da anni vive la condizione del “mantenuto” da quello femminile che è ai vertici mondiali, però un po’ di luce si comincia a vedere. Non abbiamo il campione con la “C” maiuscola, ma tanti buonissimi giocatori sì. Fognini è stato numero 17 dell’Atp e il giovane Quinzi è uno molto buono in prospettiva». Sarà, ma quel «passante di rovescio indecifrabile», citiamo Gianni Cleri­ci, che rese Pietrangeli n.1 del mon­do della terra rossa non si è più vi­sto. «Clerici è il “poeta del tennis” e in ef­fetti con quel colpo ho vinto due Ro­land Garros di fila ­nel 1959 e nel ’60 - e un Internazionale d’Italia - 1961 - arri­vando all’apice.Quando non mi riu­sciva tra me e me sbottavo: ti prego non mi abbandona­re pure tu... Comun­que, non mi piace parlare di ciò che ho combinato in cam­po. Se hai fatto qual­cosa di buono nella vita, autocelebrarsi trovo sia un segno di debolezza oltre che di senilità precoce». Infatti, nella sua avventurosa bio­grafia “C’era una volta il tennis” (Rizzoli), scritta da Lea Pericoli, si parla pochissimo di tennis. Ha letto quella di Andre Agassi? «Anche se “Open” l’ha scritto un pre­mio Pulitzer ( J. R. Moehringer, ndr) non ho voluto leggerlo. Agassi che 25 anni dopo ci racconta che per gioca­re si doveva “drogare” non mi inte­ressa. Preferisco rileggere le imprese del campione che è stato». Niente doping ai tempi del doppio magico Orlando Sirola-Nicola Pie­trangeli? «Ma che scherziamo? Sirola poi era serissimo, tutto tennis, chitarra e o­steria. Il mio doping, come diceva Orlando, era “stare sempre appresso alle principesse”...». Lei, sportivamente parlando, ha fat­to perdere la testa anche al Maraja di Baroda. «Un personaggio incredibile il Ma­raja. Stravedeva per la nostra Nazio­nale, così, quando andammo a gio­care la Davis in Svezia venne aggre­gato come “vice ct in pectore”. Mi a­veva invitato a trovarlo a Baroda, è l’unico viaggio che mi pento di non aver fatto». Mai pentito, invece, di quella tra­sferta da ct azzurro nel Cile di Pino­chet per la finale di Coppa Davis del 1976? «Pentito? Dispiaciuto e offeso, piut­tosto: l’unica volta che abbiamo ri­portato la Davis in Italia ci siamo do­vuti nascondere come dei ladri... Ho vissuto scortato per giorni e mi sono beccato pure del “fascista”, io che nell’80 scesi in piazza a protestare contro gli Usa che boicottavano le Oli­mapidi di Mosca. E c’è ancora chi è con­vinto che Panatta e Bertolucci a Santiago giocarono con la maglia rossa per provocare il regime di Pinochet... Adria­no in “rosso” aveva vinto Parigi e Roma, altro che provocazio­ne politica». Scaramanzie da ten­nisti, ma lei che rap­porto ha con la fede? «Da vigliacco ho sempre cercato Dio nel momento del bi­sogno. Anche in campo, confesso che l’ho pregato di farmi vincere, ma an­che di far commettere un doppio fal­lo all’avversario...».Piccole crudeltà di un uomo gene­roso e vicino al prossimo. «Faccio quello che posso. Se una fetta dei 60 milioni di ita­liani offrisse un euro soltanto ogni mese si potrebbe conti­nuare a costruire al­loggi per le famiglie dei bambini malati di cancro ricoverati in ospedale - come abbiamo fatto con Lea Pericoli a Mila­no - o ampliare una scuola in Kenya a­perta con 10 alunni e adesso ne ospita più di cento. Que­sti sono i match più belli che mi pia­ce vincere».E per le sue 80 primavere che match si regalerebbe? «Un bel doppio “semi-misto” sul centrale del Foro Italico che porta il mio nome. Mi piacerebbe giocare in coppia con papa Francesco, contro la mia amica Lea Pericoli e da lassù in cielo richiamerei Sirola. Sarebbe un gran bel regalo di compleanno».