Nel 1928 René Magritte dipinge un quadro simpatico e bizzarro che raffigura una pipa sotto la quale sta scritto «ceci n’est pas une pipe» (questa non è una pipa): ha infatti ragione in quanto il quadro non si può fumare quindi non è una pipa, ma solo una sua raffigurazione. Il titolo del dipinto è
Il tradimento delle immagini. Nel 1912 Pablo Picasso aveva intrapreso il percorso opposto: aveva costruito con dei pezzi di cartone un oggetto che chiamava «chitarra» ma che alla chitarra non assomigliava affatto, la evocava mentalmente, non era ovviamente suonabile, ma ne costituiva l’esaltazione dell’immagine. Da questa prima chitarra derivarono una serie infinita di schizzi e di piccole opere dall’aspetto effimero che furono in gran parte distrutte dall’incuria del momento. Le superstiti vanno in questi giorni a costituire una curiosa mostra con 70 opere che apre al MoMA di New York il 13 febbraio e resterà aperta fino al 6 giugno. Molto interessante. Picasso era un personaggio particolare assai. Usava dire ai suoi colleghi «non portatemi nel vostro studio; se per caso vi è venuta una buona idea, ve la rubo…» il che non era che un’altra versione del suo detto «io non cerco, trovo». E in quegli anni l’artista che più gli era vicino era Georges Braque, col quale divise lo studio dal 1911 al 1914 in un tale intreccio di stile e di ispirazione che quando si separarono, a detta di molti, non sempre furono in grado di distinguere i quadri dell’uno da quelli dell’altro. Braque rappresentava alla perfezione quella linea dell’arte francese che esaltava «l’art pour l’art», l’arte come fine a se stessa e quindi svincolata da ogni tema sociale, da ogni criterio che non fosse puramente estetico. L’etica dell’arte «senza etica». Era emblematico il suo dipinto del 1910
Violino, bicchiere e coltello, quanto lo fu il "violino" del 1911, tutto scomposto, e quanto lo saranno tanti altri che raffiguravano spartiti, tavolini, strumenti musicali. Si trattava di puro piacere del dipingere dove l’allusione alla musica non era casuale in quanto la pittura ambiva a diventare asemantica come la musica. E Picasso s’impadronisce del tema, ma ci mette il calore del suo carattere, e con il calore l’ironia. Anche lui frequentava la musica, quella evaporata del suo amico Erik Satie, il quale non era affatto privo di dimensione semantica, anzi era alla ricerca costante della messa in discussione, anche goliardica e irriverente, dei valori benpensanti. Ed erano tutti i due in linea con quella cultura parigina dell’iconoclastia che s’era trovata compatta delle provocazioni di
Ubu Roi, la pièce teatrale superprovocatoria e anarchica di Alfred Jarry, e che avrebbe portato, da lì a pochissimo, alle provocazioni di Marcel Duchamp. Picasso ruba quindi la liuteria a Braque. Non dimentica la sua propria origine ispanica, molto più da chitarra che da violino, lui che parla ancora un francese fortemente accentuato. Inventa la chitarra come totem e le restituisce il senso dello strumento suonato nelle serate fra studenti e artisti a Montmartre, ne fa un corpo sinuoso da femmina all’interno della grammatica cubista. E poi si mette a giocare con il tema applicandovi quella generosa e esauribile sua creatività. Perché Picasso, in tutta la sua carriera sarà formalista solo in apparenza. Per lui il moto ludico è un modo esistenziale per cavalcare la vita e le sue inarrestabili sorprese. Questo lo porta costantemente ad abbandonare uno stile appena conquistato e dominato per affrontarne uno nuovo. E le amicizie non sono altro che uno strumento ulteriore per incontri, stimoli e idee. Tramite Satie incontra il giovane Cocteau, il quale, sempre in quel 1912 dove ne succedono di tutti colori e di tutti i suoni, si fa indicare la strada da un suo coetaneo, poco più che ventenne ma già all’apice della fama, il ballerino Nijinsky. Il russo gli rivela la chiave del successo e della modernità dicendogli «Monsieur, mi sorprenda». Tutta l’arte da quel momento è sorpresa. Picasso si sorprende e sorprende. A tal punto che da lì a poco abbandona il cubismo, si rende più razionale prima e si dà al neoclassico poi. Nel 1917 è già un altro artista e con Cocteau e Satie, mentre tanti altri in uniforme grigioverde affogano nei pantani delle trincee sulla Marna, mentre Céline scrive le prime righe del suo romanzo esistenzialista e truce,
Viaggio al termine della notte, mette in scena un balletto dell’eleganza e della spensieratezza,
Parade, che finirà in rissa con la critica. I costumi ormai già «tardo cubisti» erano in cartone, come la prima chitarra di Picasso.