New York. Philip Roth, addio allo scrittore che credeva solo alla letteratura
Lo scrittore americano Philip Roth morto martedì all'età di 85 anni
Del romanzo, negli ultimi tempi, Philip Roth parlava con distacco. Lo definiva un’arte ormai minoritaria, destinata a trasformarsi in prelibatezza per pochi appassionati o magari in disciplina di studio. «Come la poesia latina», aveva suggerito, e in quella similitudine c’era tutta la sua arguzia, tutta la sua malizia. La poesia, infatti, si scrive ancora oggi, anche se non in latino. Questo Roth lo sapeva, come sapeva che, in un certo senso, il romanzo non è mai stato popolare quanto oggi. Non come genere letterario, forse, ma senza dubbio come genere merceologico. Una differenza fondamentale, un abisso che separa l’inquietudine radicale dalla facile consolazione, lo scandalo dal luogo comune, il rischio dal comodo pregiudizio. Roth – che è morto martedì sera a New York, all’età di 85 anni – non è mai stato uno scrittore rassicurante. È stato, se non il maggiore, senza dubbio uno dei massimi narratori del secondo Novecento, portavoce di una letteratura che da tempo non riconosce più confini nazionali precisi e si articola semmai come lingua franca dell’immaginazione planetaria.
Per lui, nella fattispecie, la letteratura era tutto e tutto poteva sostituire, dalla religione alla psicoanalisi, fino alle stesse relazioni personali. Scrivere era il suo modo di reagire a un’assenza percepita come irreparabile. Il suo proclamato nichilismo era, a ben vedere, una forma di ribellione contro la dittatura del nulla. Lo si capisce se si riprende in mano un breve romanzo del 2006, Everyman (in Italia è edito da Einaudi, che ha in catalogo tutta l’opera di Roth). Anche per la misura in cui è contenuto, il racconto ricorda da vicino il celeberrimo La morte di Ivan Il’ic di Lev Tolstoj. Anzi, è proprio La morte di Ivan Il’ic riscritta negli anni Zero del XXI secolo. Anche qui, al termine dell’agonia, si apre una zona d’ombra, ma questa volta non sembra esserci nessuna possibilità di salvezza o di riscatto, nessuna luce che filtra dal buio. Resiste soltanto la memoria custodita da Nancy, la donna amata, che durante il funerale dell’innominato protagonista ( Everyman, “ognuno”, è anche il titolo di una famosa “moralità” del Medioevo inglese) ne rievoca l’abilità di nuotatore. La parte per il tutto, un unico giorno di sole trascorso al mare come sintesi di un’intera esistenza.
Questo fa la letteratura, questo è il compito dei romanzi. Roth era nato il 19 marzo del 1933 a Newark, nel New Jersey, da genitori ebrei immigrati dalla Galizia. Elementi di per sé non eclatanti, ma che nel corso del tempo sarebbero diventati costitutivi di un’opera nella quale il microcosmo di Newark assume, di nuovo, una connotazione universale, nella quale si rispecchiano le sofferenze e le contraddizioni dell’identità ebraica all’indomani del- la Shoah. Formatosi alla scuola dei grandi narratori della generazione precedente, aveva appreso da Bernard Malamud la precisione dello sguardo e da Saul Bellow una propensione alla schiettezza autobiografica che, dopo le prime prove giovanili, deflagra nel provocatorio e sfrontato Lamento di Portnoy. È questo libro, uscito nel 1969, a fare di Roth uno degli autori più acclamati e discussi degli ultimi cinquant’anni. La lotta con la famiglia d’origine e l’esibita ossessione erotica sono le componenti più vistose di un romanzo che già denota una perfetta padronanza di ogni strumento narrativo e linguistico.
A dispetto della straordinaria prolificità di cui ha dato prova nel tempo, fino alla clamorosa rinuncia alla scrittura nel 2014, Roth non ha mai proposto ai suoi lettori semplici meccanismi di intrattenimento, ma ha sempre fornito raffinati – e non di rado inquietanti – dispositivi di pensiero. Sia il ciclo di Zuckerman (nove romanzi in tutto, da Lo scrittore fantasma del 1979 a Il fantasma esce di scena del 2007), sia la trilogia del professor Kepesh (avviata negli anni Settanta e culminata nel bellissimo L’animale morente del 2001) si prestano a essere interpretati come documenti di un’insoddisfazione esistenziale che rasenta spesso i territori della disperazione. Sono le ragioni del corpo che si impongono nell’ateo dichiarato Roth, in maniera anche sgradevole ( L’umiliazione, del 2009, è forse il più estremo dei suoi apologhi), ma con assolutezza indiscutibile.
Roth era consapevole di poter raccontare tutto con il romanzo, e lo ha fatto. Si è trasformato nel protagonista di libri che propongono una paradossale controstoria degli Stati Uniti e del mondo, sempre facendo leva sulla questione dell’ebraismo (si pensi, tra gli altri, a Operazione Shylock del 1993 e a Il complotto contro l’America del 2004) e ha portato alle estreme conseguenze i temi del conflitto generazionale in un romanzo come Pastorale americana, che nel 1997 affronta il nodo del terrorismo. Roth è stato uno scrittore di successo, con alcuni libri portati al cinema, sia pure con risultati diseguali (più del recente American Pastoral diretto da Ewan McGregor, andrà ricordato l’interessante La macchia umana del 2003, con Robert Benton alla regia e Anthony Hopkins e Nicole Kidman nei ruoli principali).
Ma è stato anche lettore e interlocutore privilegiato di Primo Levi, un grande autore che, a differenza di Roth, si era a lungo sottratto alla suggestione del romanzo. E poi c’è la questione del Nobel, certo. Non è facile comprendere i motivi per cui, nonostante le ripetute candidature e il pressoché unanime apprezzamento critico, l’Accademia di Svezia non abbia ma voluto premiare Roth. Davvero l’ostacolo era costituito dalla natura troppo esplicita di molte sue descrizioni? Oppure era considerato uno scrittore troppo americano (o troppo ebreo americano) per poter essere laureato senza suscitare ulteriori polemiche? Ci sarebbe materia per un romanzo, a voler indagare. Di sicuro è un libro che Roth avrebbe saputo scrivere. Forse adesso qualcuno provvederà al posto suo.