Charles Péguy torna ad essere sempre più presente nel dibattito culturale contemporaneo. In Francia lo cita uno scrittore discusso e anticonformista come Michel Houellebecq nel suo ultimo romanzo ed è un punto di riferimento per il filosofo Alain Finkielkraut. In Italia lo studio della sua figura e del suo pensiero si fa sempre più approfondito, attraverso convegni, studi, ritratti biografici e anche le traduzioni delle sue opere sono in crescita, riproponendo non solo i testi più conosciuti, come
Il denaro, Veronique, la serie dei
Misteri, ma anche vere e proprie 'perle rare', da riscoprire. È il caso di un saggio, che esce in libreria lunedì prossimo, attualissimo ancora oggi, a più di cento anni dalla sua stesura, e che viene tradotto integralmente, con il semplice titolo dello scrittore al quale fa riferimento,
Zangwill da Marietti (pagine 112, euro 12,00), con l’ottima curatela e traduzione di Giorgio Bruno, che sottolinea quanto questo testo sia «un saggio sul pensiero moderno e sulla ricerca storica, in aperta polemica con quella che si configurava proprio in quegli anni come l’impostazione della storiografia e della critica letteraria, nella scuola francese, a tutti i livelli, primario, secondario e accademico». Si tratta di un testo che ha una vicenda decisamente curiosa, perché viene pubblicato, nel 1904, in uno dei
Cahiers de la Quinzaine, la rivista che Péguy aveva fondato nel 1900, come introduzione ad un racconto dello scrittore inglese, Israel Zangwill, nato da una famiglia di ebrei russi, uno dei primi sostenitori del sionismo (in Italia sono stati riproposti da poco i suoi
Racconti del ghetto da Guanda), di cui gli era stata mandata la traduzione di un breve racconto, 'Chad Gadya!' ('Tutto è finito'), che Péguy legge e rilegge e ritiene decisamente bello, all’insegna della poesia, anche se il nome dello scrittore gli è sconosciuto. Si tratta di un racconto che contiene anche una canzone dal tono amaro, legata al tema della Pasqua ebraica, in cui il protagonista racconta il dramma nel ripensare alla sua vita, nel desiderio di verità e di giustizia nella parola di Dio rintracciabile nell’animo ebraico e che molti anni più tardi, nel 1976, Angelo Branduardi adatterà, creando «Alla fiera dell’est». C’è una particolarità: Péguy non scrive un saggio letterario su Israel Zangwill, ma offre una dettagliata e polemica analisi delle idee positiviste, applicate anche alla letteratura, prendendo come spunto Hippolite Taine e Jules Renan, considerati come «i fondatori della mentalità dominante di fine secolo». Péguy teneva in grande considerazione questo suo saggio, al punto da inserirne alcune parti, nel 1911, in una selezione dei suoi scritti. Effettivamente egli, prefigurando una diversa lettura dello scrittore, mette in rilievo quali sono i rischi del pensiero intellettuale moderno e in particolare dello storicismo positivista, un tema che troviamo sempre al centro della sua opera, che qui raggiunge una lucidità di pensiero e una tensione metafisica che fa scrivere, e giustamente, al curatore: «Raggiunge il vertice», in virtù della sottile capacità analitica del pensiero dei suoi 'avversari culturali', ma anche dal fatto che non c’è odio e neppure acredine nei confronti degli intellettuali che contesta, ma immedesimazione, partecipazione umana». Per Péguy lo storico deve restare uomo, ha bisogno di realtà: «Le umanità deiste e in particolare cristiane… avevano distintamente il senso del perfetto e dell’imperfetto, del finito e dell’infinito, del relativo e dell’assoluto: conoscevano dunque i limiti dell’umanità… In queste umanità l’uomo era riconosciuto creatura e limitato ai limiti umani: lo storico restava umano». Invece la modernità crede di aver messo da parte Dio: «I metodi moderni, la scienza moderna, l’uomo moderno credono di essersi sbarazzati di Dio: e in realtà, per chi guardi un po’ più in là delle apparenze, per chi voglia andare oltre le formule, l’uomo non è mai stato così 'imbarazzato' di Dio». Poi però specifica e questo diventa il punto nodale di tutto il saggio, che c’è un’ambizione e un’ambivalenza in questa loro posizione: sbarazzarsi di Dio vuol dire assumere se stessi al ruolo divino. Il «Dio cacciato dalla storia» presume uno storico che «ha concepito la sua scienza secondo un metodo che esige da lui esattamente le qualità di un Dio». E così mette in guardia da un rischio, quello che trova nel pensiero di Renan, di «una umanità divenuta Dio per l’infinità totale della sua conoscenza, per l’ampiezza della sua memoria totale», un’idea che è stata «l’eucarestia laica di tutta una generazione, di tutta una leva di storici, della generazione che in campo storico inaugurava il mondo moderno». Con un limite evidente che Péguy ritrova nell’impossibilità di guardare al reale, quando sottolinea continuamente i caratteri di questa «umanità-Dio, ferma come un Dio nella contemplazione della sua totale conoscenza, che ha esaurito il dettaglio del reale, in modo così completo e perfetto da essere arrivata al fondo e fermarsi lì». Come conclusione lo scrittore francese propone un ritorno alla realtà: «Siamo davanti ad uno spettacolo immenso e di cui non conosciamo che effimeri incidenti: questo spettacolo può riservarci tutte le sorprese: noi siamo impegnati in un’azione immensa di cui non vediamo il termine, e forse non ha termine… noi non sappiamo nulla o quasi nulla: non dobbiamo far altro che lavorare modestamente; bisogna osservare bene, bisogna agire bene e non credere che ci ingannerà, né si fermerà il grande avvenimento».