Agorà

Intervista. PFM, un anno di musica politica tra Tokyo e New York

Andrea Pedrinelli martedì 2 gennaio 2018

La Premiata Forneria Marconi con al centro i due storici membri superstiti: Franz Di Cioccio e Patrick Djivas

Tokyo, Giappone. San Paolo, Brasile. Gettysburg, Stati Uniti. Città del Messico, Messico. Lima, Perù. E poi Olanda, Argentina e pure il Cile, senza contare Chicago o New York, Padova, Varese, Milano, Brescia, Assisi, Roma o Legnano. Non è un elenco di città e nazioni del mondo, bensì le città e i Paesi che ora stanno ospitando l’ennesimo tour mondiale della PFM, una rinata Premiata Forneria Marconi di nuova formazione attorno al nucleo storico del duo basso/ batteria Patrick Djivas/Franz Di Cioccio. Dopo l’addio di Franco Mussida, con Lucio 'Violino' Fabbri, Marco Sfogli, Alessandro Scaglione, Alberto Bravin e Roberto Gualdi, la PFM suona nel globo Emotional tattoos, primo suo disco di inediti dal 2000 a oggi, album della rinascita, primo lavoro italiano pubblicato contemporaneamente nella nostra lingua e in inglese, in tutto il mondo e peraltro con un’etichetta internazionale, la InsideOutMusic (ché la Sony Italia da noi il cd lo distribuisce soltanto). Forse Emotional tattoos non lascerà il segno lasciato nel ’72 da Storia di un minuto o nel ’74 da L’isola di niente, ma solo perché i tempi sono oggettivamente cambiati per la musica; e certo non contiene né Impressioni di settembre Celebration, però i suoi undici pezzi, e che si godano in inglese o italiano poco conta, sono ancora una volta biglietto da visita di grande musica nostra capace di scavalcare le frontiere stando lontana da trite tradizioni para-melodrammatiche. Sarà forse per questo che Djivas e Di Cioccio sprizzano gioia da tutti i pori, conversando con noi: l’energia stupisce meno, il che per i due PFM è segno distintivo da sempre.

Da dove si riparte dopo un addio pesante?

«L’importante è non calcolare mai quello che potrebbe o dovrebbe essere “meglio”; non bisogna pensare a qual è il nostro linguaggio, a come cambia, e meno che mai a cosa chiede il mercato. Facciamo quanto sentiamo di fare, e delle volte ci hanno chiesto il perché di talune scelte: però noi siamo qui ancora, altri non suonano più… Siamo andati avanti con la squadra PFM consolidata nei live già prima di incidere Emotional tattoos: cercando di trasportare su disco l’energia di cose fatte al dente che travolge il pubblico dei concerti. E certo senza mai guardare a ieri, un progetto veramente nuovo si nutre solo di novità reali, lontane da ogni consuetudine».

Perché dopo Serendipity, a parte il cd dell’opera rock Dracula del 2005, nessun inedito prima d’ora?

«Non c’è un motivo vero, è l’ispirazione: tanto che i brani di Emotional tattoos sono stati scritti tutti adesso, non erano stati accantonati nel tempo. Poi ci siamo presi la responsabilità di lavorarli tutti come singoli, senza penalizzarne uno o esaltarne un altro: da moderni artigiani che vorrebbero comunicare sempre empatia a chi ascolta, sul palco e nei cd».

Nei testi inglesi cantate spesso cose diverse che non in italiano: che tipo di lavoro è stato, questo?

«Abbiamo scritto nelle due lingue contemporaneamente, senza “tradurre”: pur partendo dalla richiesta iniziale di un cd solo in inglese. E siamo stati attenti a mantenere credibilità, restiamo italiani con storie da raccontare ma non volevamo sfiorare Bollywood. In linea di massima, l’inglese punta più sulle manie della società mentre in italiano parliamo anche di noi; e se nella nostra lingua usiamo parole rotonde, in inglese abbiamo dovuto sforzarci per via di una metrica molto più complessa da cantare».

C’è un messaggio centrale, nel nuovo album?

«C’è un’idea forte contro ogni discriminazione e soprattutto la discriminazione dei generi nella musica. La musica è un dono di Dio, ci deve anzi permettere di vincere su ogni divisione».

Dunque Emotional tattoos è anche un disco politico?

«Nel senso vero del termine, sì. Ci piacerebbe che la musica tornasse ad aggregare, che l’ansia di cambiamento che vediamo nei giovani li portasse ad affrancarsi dalle musiche liquide per riscoprire la loro identità e dei confronti necessari. I “tatuaggi emozionali” del titolo sono le esperienze emotive che ci segnano, da un quadro di Caravaggio in poi: ecco, vorremmo che queste canzoni segnassero le persone, perché le persone per noi contano più dei “fan”».

Cantate molto anche di non perdere di vista i sogni.

«È terribile quando accade. Perdere l’incanto toglie voglia di andare avanti, ci si appiattisce, si ingrigisce. E noi che abbiamo la fortuna di vivere di sogni dobbiamo gridar- lo, di non dimenticarli mai».

Ma nel mondo come proponete il cd, in che lingua?

«Dipende. Apriamo lo show come si apre l’album, con Il regno/We’re not an island, ma senza dimenticarci poi della nostra storia. Emotional tattoos funziona in italiano anche in Sudamerica e Giappone, negli States è in inglese; e poi… da noi non possiamo non fare De Andrè, in Oriente adorano Dolcissima Maria che qui ha funzionato meno, in Inghilterra amano, in italiano, Maestro della voce. Tutto però sempre senza pensare al mercato, al “meglio/ peggio” per noi: come quando una sera dovevamo fare da supporter agli ZZ Top e loro ebbero un incidente… Il teatro era pieno, ci chiesero di suonare un po’ di più e facemmo un’ora e mezzo in italiano fra le ovazioni. Perché se suoni quello che sei, allora puoi arrivare ovunque».