«Un esempio». Jacques Chirac, allora presidente della Repubblica francese, rese omaggio così al pianista suo connazionale Michel Petrucciani, spentosi a trentasei anni appena compiuti dieci anni fa. Pronunciando quelle parole Chirac aveva certo in mente il sublime talento di un jazzista debuttante a tredici anni e poi via via richiesto da Kenny Clarke, Lee Konitz, Charles Lloyd, Dizzy Gillespie, Jim Hall, Wayne Shorter, Stanley Clarke, John Scofield, Gerry Mulligan, Stéphane Grappelli. Però è probabile che Chirac pensasse pure a qualcosa d’altro. Perché Michel Petrucciani ha testimoniato con la propria vicenda terrena che quanto conta in un uomo non è quello che sembra importante, a guardare la rappresentazione che dell’uomo danno le piazze virtuali della società d’oggi. Riviste, tv, pubblicità: tutti circhi di stereotipato atletismo, bellezza patinata, modelli esteriori inaccessibili. Petrucciani, lui, sembrava uscito dalle pagine di Notre Dame de Paris. Affetto dalla sindrome detta «delle ossa di cristallo», malattia genetica che comporta carenze di calcio tali da arrestare la crescita dell’organismo, era alto novanta centimetri, pesava meno di trenta chili, era deforme e fragile. Ma dell’handicap aveva fatto la sua forza. «È stato il motore del mio successo – diceva persino –. I miei coetanei giocavano a pallone e io potevo esercitarmi al piano anche sette ore. Del resto non credo di avere genio, ho sempre e solo creduto nel lavoro». Il padre, chitarrista, gli aveva approntato una struttura meccanica perché potesse raggiungere i pedali del pianoforte. E chi ha suonato con lui, come il nostro Stefano Cantini, ha ricordato: «Si prendeva in giro sempre. Poi sul palco per i pedali lo aiutava quel marchingegno, ma per la tastiera? Avevi la sensazione che non potesse dominarla tutta. E invece saliva, saliva, si reggeva con la mano sinistra al piano e suonava… La gente temeva cadesse. Lui? Si divertiva». Già. Perché per Petrucciani l’arte era «creare allegria, donare emozioni». E dividere il proprio cachet con i membri del gruppo (avete letto bene). Volle divertirsi, e vivere, fino all’ultimo: anche quando fu chiaro che la malattia non gli avrebbe lasciato scampo. Ebbe una vita speciale, in fondo, proprio perché seppe essere normale. Perché Legion d’Onore e dischi pluripremiati non furono nulla per uno che all’handicap aveva indicato riscatto con la sua stessa esistenza e che sbugiardò falsi pietismi diventando famoso, sposandosi, avendo due figli. Per uno che, come disse Flavio Boltro, altro suo collaboratore, «insegnava a scoprire dentro qualcosa che non sapevamo di avere: il coraggio di vivere ». Dieci anni dopo Michel Petrucciani è ricordato da un’antologia e da un box di dieci magnifici album – fra cui Flamingo con Grappelli, Conversation dal vivo col padre e Piano solo, suo storico concerto tedesco – e due dvd, dei quali uno ( Travels) è un documentario. In cui gioca coi figli, la musica, la vita. E forse vorrebbe essere ricordato solo così: scherzoso al limite della goliardia, o al piano a far divertire l’anima della gente. Perché non amava parlare di qualcosa che non fosse la musica. Anche se un giorno disse: «Lo so che sono accettato per il mio talento. Ma la mia vicenda dimostra altro: quanto la gente non capisca che essere uomini non dipende dall’aspetto. È quello che hai dentro a determinare il senso della tua vita». Per questo, fu – ed è – "esempio" Michel Petrucciani. Talento immenso racchiuso in un corpo malato, uomo che parlava poco perché aveva scelto di vivere.