La storia. Quando Joe Petrosino salvò Enrico Caruso dalla mafia
Il poliziotto italoamericano Joe Petrosino
All’inizio del ventesimo secolo, è cosa nota, gli italiani negli Stati Uniti non godevano di buona fama. Eppure, fu proprio in quel periodo che cominciarono ad assurgere a una notorietà internazionale due italiani destinati a rimanere nella storia, anzi, a entrare nel mito. Due italiani come il tenore Enrico Caruso e il poliziotto Giuseppe "Joe" Petrosino.
I due si conobbero in una circostanza molto particolare. Nel 1903 Caruso arrivò negli States dove, il 23 novembre, esordì col Rigoletto al Metropolitan di New York. La performance ebbe un successo travolgente e Caruso si esibì per numerose serate. Una di queste, però, rischiava di essere l’ultima per il tenore di origini partenopee. Ma, per fortuna di Caruso, quella sera tra il pubblico del teatro newyorchese era presente Petrosino, che con grande entusiasmo si era recato, dopo il servizio, ad assistere allo spettacolo in cui, finalmente, grazie al tenore, «si parlava bene di un italiano». Finita la rappresentazione, il poliziotto aspettò incuriosito vicino alla macchina dell’artista per poterlo vedere da vicino e, magari, stringergli la mano.
La macchina era lì, pronta e scintillante. Il tenore, uscito dal teatro, fu presto in mezzo a due ali di folla. Lo sguardo del poliziotto, però, fu attratto da un qualcosa che non tornava, un’anomalia: il cofano dell’auto sembrava manomesso. Petrosino, che era anche un esperto artificiere, si fece largo tra la folla e, urlando, bloccò l’autista che stava per mettere in moto. Il poliziotto si qualificò, fermò Caruso, fece scendere il suo autista e aprì il cofano: qualcuno aveva posizionato una bomba con innesco a orologeria che, si scoprirà dopo un attento esame, sarebbe esplosa otto minuti dopo la partenza.
Caruso, il volto paonazzo, ancora frastornato, ringraziò e volle sapere il nome del suo salvatore. Il poliziotto, basso, tarchiato, il petto prominente e il volto segnato dal vaiolo, si presentò: sergente Joe Petrosino. Ma, spiegarono a Caruso i suoi collaboratori, Petrosino non era un poliziotto normale: da semplice spazzino, per la sua intelligenza e il suo coraggio, era stato assunto nel dipartimento di Polizia. Si era fatto subito notare per gli importanti risultati ottenuti nella lotta al crimine, tanto che tra i suoi ammiratori c’era Theodore Roosvelt, futuro presidente degli Stati Uniti, che aveva detto: «Petrosino è nato poliziotto e non sa cosa sia la paura».
Come ricorda ad "Avvenire" il pronipote Nino Melito Petrosino, autore del recente libro L’incorruttibile (in cui ripercorre le gesta di Joe attraverso i ricordi familiari, in particolare del nonno Michele, l’unico tornato in Italia dall’America), fra Caruso e Petrosino ci fu subito un sentimento di fratellanza, lo stesso che si ha tra connazionali che si ritrovano in terre straniere. Entrambi italiani, entrambi campani, entrambi emigrati (anche se per ragioni totalmente diverse). Caruso rimase favorevolmente colpito da quel suo strano connazionale e, in segno di gratitudine, gli fece pervenire un disco d’oro che il poliziotto apprezzò molto. Petrosino era un grande appassionato di musica. Arrigo Petacco, nella sua famosa biografia, ricordava che Petrosino si vantava di aver studiato l’arpa a Napoli. Nella casa museo Petrosino a Padula, addirittura, una stanza è stata dedicata al rapporto del poliziotto con la musica: vi sono conservati la chitarra con cui Joe accompagnava la sorella Caterina che cantava canzoni della tradizione partenopea e il violino che aveva imparato a suonare nel silenzio del suo appartamento.
Dopo il primo, adrenalinico, incontro, Caruso fu costretto di nuovo a rivolgersi al mastino italiano. La Mano Nera lo stava taglieggiando ormai da tempo: prima con una richiesta di pizzo di duemila dollari e poi con una seconda di quindicimila. Il temutissimo boss Ignazio Lupo era stato chiaro: o pagare o morire, e il tenore si sarebbe aggiunto all’elenco di oltre sessanta omicidi da lui realizzati. Petrosino usò Caruso come esca e riuscì ad arrestare gli scagnozzi della Mano Nera per poi avviare indagini che porteranno, qualche anno dopo, agli eclatanti arresti di Ignazio Lupo e Giuseppe Morello, capi della mafia newyorchese.
La brutta esperienza di Caruso con la Mafia sembrava finita qui, ma, probabilmente il cantante non aveva capito bene la lezione, oppure era stranamente attratto da questi ambienti. Si legò infatti con una singolarissima amicizia al capomafia di Chicago, Giacomo "Big Jim" Colosimo. Big Jim era un tipo totalmente opposto rispetto a Lupo e Morello. Uomo dai gusti raffinati, aveva avviato un giro di bordelli di lusso e locali alla moda, oltre a essere un noto melomane. Come spiega molto bene il giornalista Rai Michele Bovi nel recente Note segrete (un interessante libro edito da Graphofeel che prende in esame l’inedito rapporto tra crimine e musica) «con Colosimo si sviluppò un nuovo metodo di gestire le comunità italiane d’America, non più fondato su sopruso e soggezione: Cosa Nostra sembrava prendersi cura dell’immagine della confraternita di immigrati, giocando molto sulla nostalgia incrementata in particolare attraverso la canzone, il repertorio italiano e soprattutto il partenopeo. Si rafforzerà negli anni Venti la consuetudine di invitare artisti italiani per lunghe tournée nelle città statunitensi che ospitavano nutrite comunità tricolori, sponsorizzate palesemente da Cosa Nostra. La canzone divenne così il più importante strumento di aggregazione sociale».
Una storia lunga e complessa quella del rapporto tra mafia (e organizzazioni criminali più in generale) e musica, nata proprio nei primissimi anni del Novecento a New York. Non a caso, come fa notare Bovi, quando Bernardo Provenzano fu arrestato, nel 2006, nel suo covo, fu trovata una pila di musicassette. Provenzano si era nascosto nella masseria di Montagna dei Cavalli, vicino a Corleone, da dove, tanti anni prima, erano partiti Morello e Lupo, i mafiosi contro cui aveva lottato Petrosino, il poliziotto amico del tenore Caruso che aveva detto: «la vita mi procura molte sofferenze. Quelli che non hanno mai provato niente, non possono cantare».