Teologia. Perché il dolore? L'eterna domanda che inquieta la fede
Un gruppo di sopravvissuti ad Auschwitz fotografati dai sovietici liberatori del lager
«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, è tornare lì donde si è venuti»: un sentimento accorato e insieme nichilista si ritrova in queste parole recitate dal coro della tragedia Edipo re di Sofocle. Espressione di una visione dell’esistenza improntata al pessimismo totale propria di buona parte della cultura ellenica – si pensi ai lirici greci – ma anche di una tradizione consolidata del pensiero occidentale, il cui emblema è Schopenhauer. «Una visione purificata da tutte le scorie religiose», commenta il teologo tedesco Magnus Striet nel suo libro Il silenzio di Dio. Desiderio di resurrezione e scetticismo, appena edito da Queriniana (pagine 190, euro 22).
Docente di Teologia fondamentale e antropologia filosofica alla Facoltà teologica dell’Università di Friburgo, Striet s’interroga sulla questione del dolore e sulla presenza del male che affliggono l’esistenza umana, confrontandosi ampiamente con i tentativi di risposta che non solo la teologia, ma la letteratura e la filosofia hanno cercato di dare nel corso dei secoli. E cita una lettera di Johannes Brahms inviata a un amico per la nascita del secondo figlio: « In tal caso, non si può più augurare il meglio – che dovrebbe essere non nascere. Possa il nuovo cittadino del mondo non pensare mai in questo modo, ma possa rallegrarsi per molti anni del 7 maggio e della sua vita». Righe da cui traspare rassegnazione, esattamente come nel caso degli antichi greci.
Non molto dissimile del resto era la domanda di Giobbe sul destino degli esseri umani. « Ma anche se non si demonizza la nascita – rileva Striet – se si dichiara che questa non è un male radicale e si preferisce nascere, rimane in ogni caso la durezza della morte, il sapere con certezza di non esserci più in futuro». Lo scandalo della morte s’infrange solo grazie alla resurrezione. Lo sapeva bene Dostoevskij, quando dinanzi al Cristo morto di Holbein fece dire al principe Myskin nel romanzo L’idiota che guardando quell’opera si può perdere la fede: nessuna possibilità di redenzione o speranza di abbattere il muro della morte in quella raffigurazione di un cadavere straziato, nessuna immagine di divinità in quell’uomo torturato e giustiziato.
Allo stesso modo, il dottor Rieux protagonista della Peste di Camus, trovandosi davanti a un bambino in agonia, dice di rifiutare una creazione in cui trova spazio la sofferenza dei piccoli innocenti, così come Ivan Karamazov dice al fratello di voler restituire il biglietto a Dio. Spaziando fra altri vari autori, dal poeta Heine allo scrittore Fontane, fino a pensatori più recenti come Blumenberg e Sloterdijk, il teologo sulla scia di Metz affronta di petto il problema della teodicea: « È il grido di giustizia, l’orrore evidente di fronte alla storia mostruosa della sofferenza umana che stimola il desiderio di Dio. Solamente un Dio che salva, che può fare giustizia e asciugare le lacrime è un Dio che vale la pena desiderare». E qui Striet giunge al cuore della questione: « Dov’è questo Dio? Perché non interviene quando gli uomini gridano a lui lacerati dal dolore? Non dice la Bibbia che a chi chiede sarà dato?».
Ma le domande si fanno ancora più radicali: creando il cosmo e l’uomo, Dio non poteva non sapere che l’esercizio della libertà da parte degli esseri umani avrebbe potuto portare a tragedie infinite e orrori incommensurabili. Perché allora non ha rinunciato al suo progetto? Il Cur Deus homo? è un interrogativo che tocca al cuore la teologia cristiana. Per l’autore l’unica risposta possibile è nell’Incarnazione, Passione e Resurrezione di Cristo: la dimostrazione che Dio non abbandona mai l’uomo, ma anzi insegue le sue creature. Egli «conosceva le difficoltà della vita quando corse nondimeno il rischio di compiere la creazione. Ed egli intuì anche ciò che sarebbero stati in grado di fare degli esseri umani, una volta che fossero stati capaci di autodeterminarsi, in altre parole: di entrare nel regno della libertà.
Dio deve aver avuto presente la possibilità di un male che nel suo orrore supera quello che la natura già riserva, e tuttavia si azzardò a creare il mondo». La promessa della creazione è quella di un futuro che Dio non vuole che finisca, la fiducia che il male non avrà l’ultima parola e che la morte non può essere il destino finale dell’avventura umana nel mondo. Ed è grazie alla vita e al messaggio di Gesù che rimane « viva la speranza che la sventura di molti un giorno potrebbe essere riconciliata e le lacrime potrebbero essere asciugate». Che le nostre ferite siano insomma risanate. Ma questo è il mistero del Sabato Santo, il giorno del silenzio di Dio.