Sono nato in Veneto, a Pieve di Cadore, provincia di Belluno, nelle Dolomiti. La mia famiglia si è trasferita a Torino negli anni Cinquanta. La nostra prima casa fu una delle baracche del cantiere dove lavorava mio papà, uno degli operai impegnati nella costruzione del Politecnico. La fatica del lasciare la propria terra, del trasferirsi in una grande città – dove l’accoglienza e la generosità di alcuni non facevano dimenticare le chiusure e i rifiuti di altri – mi ha segnato nel profondo, ma mi ha anche aiutato a mettermi nei panni degli altri, a capire ad esempio le storie di quei ragazzi che, qualche anno dopo, sarebbero arrivati a Torino dalle regioni del Sud. Spaesati. Sui portoni di molte case una scritta terribile: «Non si affittano case ai meridionali». Molti di quei ragazzi passavano la notte sui vagoni parcheggiati nella stazione di Porta Nuova, affidando al domani la speranza di un cambiamento. Una storia che si ripete oggi con altri volti, ma con le stesse speranze, la stessa ricerca di dignità. Ho avvicinato quei ragazzi, li ho conosciuti e mi sono fatto «riconoscere». Ho condiviso le loro esperienze, ho sentito le loro speranze, i loro smarrimenti. Ad aprirmi gli occhi era stata anche una persona più anziana, un medico tormentato dai sensi di colpa per un intervento sbagliato, che aveva eletto a suo domicilio una panchina. Riuscii ad avvicinarlo vincendo la sua diffidenza, il carattere schivo e a volte burbero, scoprendo la sua umanità, il suo gran cuore. «Non preoccuparti per me – mi disse un giorno – occupati di loro», e m’indicò un gruppo di ragazzi che faceva uso di anfetamine, in quegli anni le droghe più diffuse prima del dilagare dell’eroina. Ho incontrato la strada grazie alla strada. Strada come luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi, di relazioni e di domande in continua trasformazione. Strada come luogo di crescita e di consapevolezza: dove imparare a misurarsi con l’incertezza e la complessità, a non selezionare i compagni di viaggio, a costruire speranza e corresponsabilità. Cercai degli amici con cui condividere il mio impegno. A 45 anni di distanza posso dire che il Gruppo Abele è nato così: da un incontro maturato sulla strada nel tentativo di rispondere a bisogni che richiedevano nuovi approcci, linguaggi, strumenti. Ma non basta interrogare la strada. Una volta posta la domanda è necessario anche ascoltare – con libertà e disponibilità a mettere in pratica quanto ascoltato – la risposta. Anche perché la strada non consegna come risposta ciò che uno vuol sentirsi dire. Il linguaggio della strada è scomodo, controcorrente, anche a rischio di confusione, di fraintendimento. Quanta fatica è necessaria per imparare dalla strada il linguaggio della fedeltà e della libertà. Anche all’interno della stessa comunità parrocchiale si rischia – se si ascolta con serietà la strada – di non essere capiti... Le domande poste alla strada sono come la manna che il popolo d’Israele incontra nel deserto. Una manna che permette di sopravvivere e procedere, ma che non può essere tenuta da parte, immagazzinata. Bisogna consumarla tutta. Domani se ne riceverà dell’altra, che basterà per un altro giorno di cammino. Fermare le domande è interrompere il cammino. È cedere alla tentazione di porre in magazzino quanto acquisito e illudersi di poter vivere di rendita. È routine, una tentazione a cui siamo tutti soggetti, anche nelle nostre parrocchie. Ma è così che molte insegne ingialliscono, che molti servizi invecchiano nella routine o restano uguali nella frenesia di un cambiamento solo superficiale. Pigrizia, frenesia senza direzione: sono tutti modi per scappare dall’oggi, per fuggire dalla strada. Non c’è casa senza strada e non c’è strada senza casa. Se mancano le case o almeno una casa, non c’è bisogno di strada; ma nessuna casa può «mancare» di strade: significa negare alla casa e alle case la possibilità di relazioni e di collegamento con il mondo. Strada e casa sono così strettamente legate l’una all’altra. Al punto che l’una è premessa dell’altra e che il cambiare dell’una modifica l’altra. Intrecciare «strada», «case» e «oggi» è quindi premessa, conseguenza, metodo e contenuto di ogni rinnovamento parrocchiale. E significa confrontarsi con concreti e precisi «nodi»: imparare ad abitare «anche» fuori casa (senza paura di attraversare e percorrere strade impegnative e nuove); non aver paura della strada: viaggiare per non restare chiusi nei propri confini e orizzonti; ripensare le categorie dell’educare, dell’essere casa, famiglia, giovani...; costruire comunità e comunità di «famiglie vicine»; promuovere vita culturale e tensione per il «bello» per contrastare degrado, ingiustizie e solitudine; fare della celebrazione liturgica il momento di sintesi, di nutrimento e di verità tra il dire e il testimoniare giustizia e solidarietà; rispondere alle ingiustizie (mute e gridate) che vengono dalla strada. «Strada», «casa» e «oggi» sono, tra l’altro (così ci dicono gli studiosi della parola di Dio) termini biblici di inesauribile ricchezza. Tenerli insieme è sfida e aiuto per non restare chiusi nella propria casa e/o nella propria parrocchia, non costruire case, chiese, cortili e/o oratori lontani dalla strada, dalla fatica ma anche dalla bellezza dell’abitarla, non illudersi di crescere e maturare «solo » sulla strada o solo nel chiuso di qualche struttura e/o istituzione; non fare dell’educare un semplice manuale di comportamento che ingigantisce la forma e calpesta la sostanza; un manuale che insegna a non trasgredire i precetti ma non a vivere le responsabilità. Se l’essere «tra le case» continua il suo dinamico confronto con la strada, le nostre parrocchie possono sprigionare la loro potenziale vitalità e rivelare tutta la loro forza e attualità! Mai come oggi le «case», le persone e le famiglie hanno fame e sete di luoghi in grado di consegnare possibilità di senso e autentica vita comunitaria. Di speranza.