Opera. Il Rossini a Pesaro, un festival modello da 40 anni
“L’equivoco stravagante” spettacolo del Rossini Opera Festival 2019
L’effetto è straniante. Di quelli che per un attimo ti spiazzano. Piazza del Popolo, Pesaro. Un musicista di strada con il suo violino suona Bach. Ma non siamo nella città di Gioachino Rossini? Tiri dritto, verso il Museo nazionale Rossini appena inaugurato, che è due isolati più avanti, e in lontananza senti che le note sono cambiate: ora tocca a Mozart. Niente Rossini. Che è già dovunque a Pesaro, dove tutto si chiama come il compositore di casa, dalla via principale alla pizza. Bach e Mozart. Come dire – intuizione che ti si chiarisce nelle sale del museo e poi la sera, a teatro – il terreno nel quale affondano (e si nutrono) le radici di Rossini. Che sembra essere poi la “tesi” che ha voluto dimostrare il Rossini opera festival 2019, edizione XL che ha messo in cartellone Demetrio e Polibio, la prima opera scritta da compositore nel 1806, L’equivoco stravagante, terzo titolo del lungo catalogo rossiniano datato 1811, partiture dove senti il debito nei confronti del passato, ma dove intuisci anche la grandezza del Rossini che verrà; e poi il melodramma della maturità, Semiramide, viaggio negli abissi dell’uomo scritto nel 1823.
Edizione XL che sta per numero quaranta, certo (il primo cartellone fu nel 1980 con Gazza ladra e Inganno felice), ma che ti fa pensare anche al formato extra large della rassegna marchigiana, trenta appuntamenti in tredici giorni tra opere, concerti, recital di canto e incontri, compreso il Gala Rof XL che stasera vedrà sul palco interpreti rossiniani doc come Juan Diego Florez e Angela Meade, Michele Pertusi e Nicola Alaimo, Lawrence Brownlee e Franco Vassallo. La generazione Rossini. La vedi (la ascolti) sul palco del Rof 2019: il palco del Teatro Rossini o della Vitrifrigo Arena, ma anche il balcone della casa natale del compositore che alle 19 diventa ribalta per flash mob lirici che bloccano il traffico (di biciclette e pedoni di ritorno dal mare) sulla via principale di Pesaro. Generazione Rossini che, certo, è quella degli interpreti storici che in questi quarant’anni di Rof hanno contribuito alla Rossini renaissance per riaccendere l’attenzione su tutto l’immenso patrimonio musicale del pesarese. Generazione Rossini che sta crescendo, che sta vivendo una sorta di cambio della guardia. Non solo per età, ma anche per stile e gusto, provando a proporre un modo nuovo di fare Rossini, fedele, sicuramente, al testo, ma “sporcato” di una modernità che non può che far bene al pubblico, chiamato a guardarsi come in uno specchio nei personaggi raccontati dalle storie messe in musica dal compositore. Lo senti nelle opere del Rof XL.
Nella Semiramide che Michele Mariotti – le ovazioni che lo hanno salutato sono un’ulteriore conferma della meritatissima etichetta di direttore rossiniano – e Graham Vick raccontano come una seduta di psicoterapia per scendere negli abissi nella nostra anima: Salome Jicia e Varduhi Abrahayman, Semiramide e Arsace, sono eccellenti interpreti capaci di fare teatro in un palcoscenico vuoto e musiciste che trovano nella scrittura rossiniana il loro territorio ideale. Lo senti nel Demetrio e Polibio, la prima opera scritta da Rossini: era il 1806 e il compositore aveva solo quattordici anni quando fu contattato (o contattò proponendosi?) da Domenico Mombelli che aveva una compagnia teatrale con la moglie e le figlie che misero in scena il melodramma (dove i richiami a Mozart sono evidenti – Paolo Arrivanbeni sul podio della Filarmonica Rossini accompagna in stile le arie e correre in avanti verso il Rossini del futuro nei numeri d’insieme) nel 1812 a Roma.
Rossiniani doc come Jessica Pratt (che affronta con la sicurezza di sempre l’impervia parte di Lisinga tutta agilità e sovracuti) e Juan Francisco Gatell (interprete raffinato, misurato e di gran gusto musicale è Demetrio) accanto a giovani interpreti che lasciano il segno come Cecilia Molinari e Riccardo Fassi, voce, temperamento e notevole presenza scenica per rendere convincenti Siveno e Polibio. Lo spettacolo è quello firmato nel 2010 da Davide Livermore, ancora godibilissimo nel reinventare lo sconclusionato libretto ambientandolo su un palco di un teatro infestato di fantasmi che combinano scherzi a cantanti, macchinisti e pompieri del teatro, facendo volare candelabri e sollevando in aria pianoforti (con i cantanti sdraiati sopra). Lo senti ne L’equivoco stravagante diretto da Carlo Rizzi – libretto pieno di doppi sensi, censurato dopo tre recite nel 1811 a Bologna, che i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier rendono meno volgare rifacendosi alle illustrazioni del vignettista francese Honoré Daumier – dove lo strabordante Davide Luciano è capace con il suo carisma scenico e musicale di calamitare l’attenzione nei panni di Buralicchio. Con lui le “promesse” Manuel Amati e Claudia Muschio (per lei un meritatissimo applauso dopo l’aria, cesellata con precisione e gusto).
Giovani usciti negli anni dall’Accademia rossiniana che anche nel 2019 ha messo in campo il Viaggio a Reims (recite alle 11 del mattino nello spettacolo agile e balneare – tutti in accappatoio – di Emilio Sagi), occasione per ascoltare i rossiniani che verranno: lasciano il segno la Corinna eterea di Giuliana Gianfaldoni, lo squillo (e l’emozione) che Matteo Roma offre a Libenskof, la prestanza (vocale e scenica) che Daniel Umbelino mette nel Cavalier Belfiore e la maturità di interprete di Diego Savini (Don Profondo). Giovani, come i ragazzi che la sera, sul lungomare di Pesaro provano e riprovano passi di hip hop: una cassa collegata al cellulare rimanda musica rap, che, ad ascoltarla bene, affonda le sue radici nel sillabato vertiginoso inventato dal compositore del Barbiere di Siviglia. Anche questa, pensi, è la generazione Rossini.