La mostra. Pepi Merisio e la fotografia come un ponte di sguardi
Carona - malga del Lago Rotondo, 1967 (Pepi Merisio)
C’è un ponte ideale tra Terra di Bergamo di Pepi Merisio e “Guardami”, la mostra con cui il Museo della Fotografia Sestini, nell’ex convento bergamasco di San Francesco, inaugura il suo nuovo percorso espositivo. Corrono cinquant’anni esatti tra i tre volumi pubblicati nel 1969, che il fotografo nato a Caravaggio nel 1931 ha sempre considerato il suo capolavoro, e questa mostra dal sapore ricapitolativo, in apertura giovedì prossimo per restare visitabile fino al 1 settembre, curata dallo stesso Merisio con il figlio Luca, anch’egli fotografo (catalogo Lyasis edizioni).
La selezione degli oltre 250 scatti restituiscono una antologia precisa e potremmo dire definitiva dei temi più noti e simbolici affrontati da Merisio in oltre 65 anni di attività: la civiltà contadina, il lavoro, il paesaggio – naturale e urbano – italiano, la famiglia, la sfera del religioso, e naturalmente Paolo VI, di cui Merisio ha costruito l’iconografia (mentre è una autentica sorpresa la sezione di immagini raccolte tra Nord Africa e Medio Oriente).
È il grande canto delle opere e i giorni per il quale Merisio è giustamente celebrato: «Nel cuore della cultura contadina – scrive in catalogo Denis Curti – il fotografo trova le radici della sua ispirazione e ne fa la poetica distintiva del suo sguardo. Nei fatti, Merisio riesce a dare forma a una nuova architettura dell’estetica del quotidiano. Questa è la sua peculiarità, questa la sua forza propulsiva».
Certo, nel lavoro di Merisio c’è una cosciente volontà di documentare, e insieme anche una nota malinconica, che risuona profonda e bronzea come un campanone di campagna. L’urgenza di raccogliere un mondo che svaporava sotto gli occhi è stata una spinta decisiva nel costruire la sua esperienza di fotografo – per quanto, come c’è già stata occasione di notare, sarebbe riduttivo fare di lui solo il cantore del crepuscolo del mondo rurale, in primis lombardo: le foto di Merisio si collocano lucidamente sul crinale tagliente di una irreversibile svolta antropologica che ha investito l’intero paese.
C’è però in questa mostra una grande differenza con le altre volte in cui Merisio ha presentato il suo lavoro, ed è tutto condensato nel titolo, persino spiazzante, che è anche un invito a ricalibrare l’angolatura con cui guardare un corpus imponente (sono oltre 150 i volumi fotografici pubblicati e in particolare la monumentale collana Italia della nostra gente ha raggiunto i trentotto volumi).
Al centro, infatti, non c’è più – o non c’è solo – il “contenuto” della ripresa. Merisio si svincola dal rischio dell’archivio del “come eravamo”, che può essere sempre più forte con il passare degli anni. Richiama l’attenzione sull’occhio fotografico dentro cui si riversa in modo irresistibile il mondo e ci porta all’interno del momento della creazione: l’evento in cui «la realtà con la forma» (così Ferdinando Scianna definisce il “metodo Merisio”) si coagulano nell’immagine.
“Guardami”, lo rivela lui stesso in un testo firmato in catalogo, è l’invito (anche solo mentale) che Merisio rivolge a chi si trova davanti alla sua macchina fotografica. Una parola magica, quasi da ipnotizzatore. Una parola che potrebbe apparire seduttiva: ma non c’è foto di Pepi Merisio in cui chiunque (o qualunque cosa: «“guardami” valeva per tutti i soggetti, persino per i paesaggi») si ritrovi al suo interno non appaia completamente libero. Quel “guardami” è una parola dalla dolcezza paterna che scioglie dalla soggezione dell’obiettivo e costruisce una relazione che supera il tempo e lo spazio.
«Ho sempre pensato, anzi sentito, che la fotografia debba essere un colloquio e se non ci si guarda negli occhi è molto difficile capirsi – annota Merisio –. “Guardami”, la domanda che c’era nel mio obiettivo fotografico di fronte a un soggetto, uomo o cosa che fosse. E quando lo sguardo quasi faceva scattare da solo l’otturatore, la tensione calava e avevo la sensazione di aver conquistato qualcosa di importante, di vero. Era quindi un discorso di sguardi». E conclude: «Mi pareva di aver centrato qualcosa di indescrivibile, tutto solo mio: un silenzioso colloquio nell’aria che miracolosamente ero riuscito a sentire e fermare. Il miracolo della fotografia ». “Guardami” è dunque la parola vitale (poetica nel suo senso più profondo) che fa nascere l’immagine: è questo il grado più intimo di realtà della fotografia di Pepi Merisio.