Dibattiti. La sfida del pensiero debole: filosofi a confronto su Vattimo
Gianni Vattimo
«La sua vita ha incarnato un’alta dimensione etica, caratterizzata da forti ragioni morali, espresse pubblicamente» racconta Vincenzo Vitiello a un mese dalla scomparsa di Gianni Vattimo, avvenuta lo scorso 19 settembre. Dopo gli interventi proposti, all’indomani del decesso, dalle pagine di giornali e periodici per dare conto della vita e dell’opera di uno dei maggiori pensatori europei della seconda metà del Novecento, in occasione del trigesimo della morte, “Agorà” torna a ricordarlo. E dà voce, nel proseguire la riflessione aperta dai contributi di Francesco Tomatis e Giuseppe Lorizio, alle parole di altri tre pensatori italiani, Sergio Givone, Francesco Totaro e Vincenco Vitiello, per delinearne ulteriormente il profilo intellettuale.
A fronte del tentativo di Vattimo di pensare il cristianesimo senza la metafisica Vitiello, già ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Salerno e docente di Teologia politica all’Università San Raffaele di Milano oltre che amico di Vattimo, assicura che «non solo sia possibile ma sia necessario, perché il cristianesimo non è una dottrina ma un modo di vivere, un’esperienza, una maniera di stare al mondo senza temere il giudizio altrui, anzi cercandolo questo giudizio».
Vincenzo Vitiello - archivio
Dal canto suo Sergio Givone, emerito di Estetica all’Università di Firenze nonché assistente, all’inizio della carriera, dello stesso Vattimo, si pone su un crinale parallelo ma consonante con le parole del collega. «Nietzsche e Heidegger - sostiene Givone -, che Vattimo chiamava “i miei angeli sterminatori”, gli hanno insegnato a concepire la verità come una ricerca personale, come vita. Vattimo, che è stato sempre cristiano, ha visto nel cristianesimo una verità che richiede uno slancio dell’anima, misericordia e compassione». La verità che il filosofo torinese riconosce nel cristianesimo sarebbe, per Givone, la verità enunciata da Giovanni quando riporta le parole di Gesù di essere la Via, la Verità e la Vita. «La verità testimoniata dal cristianesimo - continua Givone - libera dalla verità metafisica, una verità appunto che costringe all’assenso, che inchioda. Invece la verità che Vattimo ritrova nel cristianesimo è una verità fatta di compassione e comprensione», che va oltre la metafisica. Non a caso, «un autore che spesso non si associa a lui ma che ha avuto una certa influenza sul suo pensiero, anche se forse lo cita una sola volta, è Dostoevskij, e in particolare il Dostoevskij che sostiene che tra la verità e il Cristo avrebbe scelto il Cristo».
Sergio Givone - Ansa
Di opinione diversa invece è Francesco Totaro, a lungo docente di Filosofia morale all’Università di Macerata: precisa che Vattimo «esprime un atteggiamento antimetafisico perché considera la metafisica un insieme di proposizioni rigide, fisse e formulate una volta per sempre tali da impedire lo svolgimento storico dell’umano, una specie di blocco dell’umano in tutte le sue possibilità. Va riconosciuto però a Vattimo - continua il direttore degli Annali del Centro Studi Filosofici di Gallarate - l’avere messo in discussione certe incrostazioni che a ragione vengono rimproverate alla metafisica ma, invece di rifiutarla, andrebbe promossa la capacità di rinnovamento della metafisica e non la sua deposizione. Un’impostazione filosofica di tipo metafisico che non sia appunto un’impostazione irrigidita può condurre alle stesse acquisizioni di carattere critico e di carattere storicizzante».
Francesco Totaro - archivio
Per Totaro il contributo principale assicurato da Vattimo alla comprensione del cristianesimo sarebbe «l’idea della kénosis cioè dello svuotamento del divino, perché la kénosis permette di uscire dalla costruzione del Dio come onnipotente, che poi diventa onnipotenza prescrittiva per l’umano». Questa idea dell’indebolimento della teologia della onnipotenza divina va di pari passo con l’idea dell’indebolimento della ragione in quanto ragione metafisica, secondo Totaro. «Questo processo ha portato a una decostruzione degli aspetti del cristianesimo che Vattimo riteneva di carattere mitico, superstizioso addirittura o di carattere moralistico presenti nella visione cristiana. Se prima abbiamo parlato del rischio di una metafisica di tipo fissista Vattimo contribuisce al suo superamento e questo percorso di ricerca non solo si riflette nella decostruzione del sapere metafisico ma anche nella ermeneutica dei contenuti della fede. C’è un’idea di libertà nell’interpretare il cristianesimo - prosegue Totaro - che va al di là degli stereotipi e delle cristallizzazioni che hanno incrostato i contenuti della fede non permettendo di renderli accessibili all’uomo contemporaneo».
E proprio sull’ermeneutica si sofferma anche Givone. «Quello di Vattimo - precisa - è una sorta di heideggerismo cristiano che gli permette la liberazione dalla verità come rappresentazione positiva. E lo fa riconoscendo il ruolo dell’interpretazione che è l’incontro con qualcosa che non è una cosa ma una persona. Interpretare significa comprendere in modo caritatevole, abbracciare. E in questo è un perfetto allievo di Luigi Pareyson per il quale interpretare non significa risolvere un problema ma comprendere, come si fa con un’opera d’arte, relazionandosi a essa come a un tu che mi sta di fronte».
Quasi proseguendo le parole di Givone, Vitiello sottolinea come in Credere di credere ci si imbatta in «un cristiano che non pretende di parlare, come fanno i grandi teologi, come se si trovasse a tavola con Dio. Nel libro si testimonia invece la finitudine dell’uomo, che non va intesa come un limite. È grazie a questa sua dimensione finita che l’uomo è coinvolto in un confronto con l’altro, con quello che ci sorpassa. Finito, infatti, significa non essere compiuto, non essere tutto. E solo perché è finito l’uomo è un ente che ha il senso del dovere, confermando che quella di Vattimo è una filosofia di impronta morale, che rischia di essere fraintesa se la si associa al pensiero debole».
Questo non essere compiuto dell’uomo, accennato da Vitiello, sarebbe evidente quando Vattimo conia l’espressione Oltreuomo per tradurre Übermensch nicciano, e lo fa per alludere a «un uomo che va oltre se stesso, - spiega Givone - un uomo che è chiamato a rinascere, dunque a risorgere e a liberarsi».