Cattolici e cultura. Il filosofo Petrosino: pensare oltre la cultura-ornamento
Il filosofo Silvano Petrosino
Da più parti si denuncia una sorta di stanchezza intellettuale nell’universo cristiano, e soprattutto nel mondo cattolico. È come se non si avesse più voglia di ritornare su temi e questioni che tendono ad essere dati per ovvi (ci sarebbe molto da dire sull’uso ideologico del concetto di “evidenza” in ambiente cattolico: spesso il richiamo all’evidenza si è trasformato in una giustificazione per non riflettere). Questa pigrizia ha, a mio modesto avviso, due ragioni fondamentali. Da una parte vi è l’ottusa convinzione che i fatti valgano più delle parole; si tratta di quella che propongo di definire l’arroganza del pratico che porta a considerare ogni ri-flessione, ogni pensiero, ogni interrogazione, ogni dubbio, ecc. una perdita di tempo e una fuga nell’astrattezza. In questo modo gli stessi fatti, senza il soccorso e la forma delle parole, senza il sostegno di un testo che li sorregge e tiene insieme, senza una cultura che li difende e li diffonde, si dissolvono in un’anonima frenesia. A furia di separare i testimoni dai maestri, continuando ad esaltare la concretezza dei primi e a denunciare l’astrattezza dei secondi, gli stessi testimoni sono diventati muti e irriconoscibili: anche se e quando ci sono, nessuno se ne accorge; magari li si ascolta ma nessuno più parla di loro perché nessuno più è in grado di parlare di loro.
Dall’altra parte vi è la gloriosa tradizione di duemila anni di storia che è quasi diventata un peso, un ostacolo, un inibitore e non un catalizzatore di novità: Cristo sarebbe colui che ha messo fine alla storia e non colui che l’ha riaperta indicando una via diversa da quella imboccata da Adamo. Come è noto, una tradizione resta in vita solo se di continuo viene interrogata, ripensata, decostruita, sollecitata e perfino criticata, e per far questo bisogna volerla interrogare, ripensare, decostruire, criticare, così come bisogna essere messi nelle condizioni di poterlo fare. È significativo a tale riguardo che, almeno in campo filosofico, temi come quelli del dono, del perdono, dell’ospitalità, dell’essere padre e dell’essere madre, siano stati affrontati e approfonditi soprattutto da pensatori non proveniente dal campo cattolico e spesso anche del tutto estranei ad una sensibilità religiosa.
Molti sostengono che bisogna uscire da questo torpore, e avere un po’ di coraggio, anche perché il logos biblico e l’esperienza dei credenti – mi scuso se ribadisco questa ovvietà ma sotto la dittatura del politically correct alcuni potrebbero perfino sostenere la necessità di prendere le distanze dal modo di parlare “patriarcale” e di pensare “antropocentrico” delle Sacre Scritture che senza alcun dubbio non sono affatto, per fortuna, “corrette” – hanno molto da insegnare a proposito dell’enigma dell’essere umano. Tuttavia, un simile risveglio non può avvenire solo attraverso la pratica (nessuno può mettere in dubbio che a tale riguardo, a riguarda dell’agire, il popolo dei credenti non può prendere lezioni da nessuno; per limitarsi alla Chiesa cattolica, le innumerevoli opere di carità da essa messe in atto sono sotto gli occhi di tutti), ma esige anche la teoria, più precisamente esige una ri-flessione che sia in grado di nominare e ri-nominare, di pensare e ri-pensare, le opere che si mettono in atto trasformandole così in gesti culturali: è solo attraverso e grazie alla parola che l’“atto” si trasforma in “gesto”.
Tuttavia, proprio a questo livello, a livello del pensiero, iniziano le difficoltà. In effetti una feconda pratica di pensiero non si inventa da un giorno ad un altro; per pensare, per imparare a parlare e a riflettere, e soprattutto per continuare a farlo con continuità e profitto, è necessario che si realizzino certe condizioni essenziali: bisogna essere sostenuti economicamente (non si riesce a riflettere a stomaco vuoto), è necessario avere tempo (non si riesce a riflettere sotto il ricatto dell’urgenza), è necessario essere liberi (non si riflette quando si è obbligati a farlo, e soprattutto quando si è obbligati a sostenere questa o quest’altra tesi). Bisogna ribadirlo con forza: la vera cultura non è riducibile ad un insieme di dotte e aggiornate citazioni finalizzate semplicemente a confermare un contenuto di fede già dato per certo e indiscutibile. Il pensare si accompagna sempre con il ri-pensare, e ri-pensando spesso si arriva alla conclusione di dover criticare ciò che alcuni avrebbero invece voluto solo confermare.
Oggi è diventata quasi una moda criticare la gerarchia ecclesiastica ma a me sembra che le difficoltà sottolineate riguardino tutto il mondo dei credenti; tra di essi, molti hanno una concezione “ornamentale” della cultura e non nascondono una sorta di irriducibile diffidenza nei confronti degli uomini di pensiero. Certo, se si continua a restare chiusi nei bar, compresi quelli di molte parrocchie, se ogni volta che si solleva un interrogativo e si mette in discussione una certa tradizione si viene accusati di relativismo e di disfattismo, allora non resta altro da fare che diffondere quella che giustamente è stata definita «la paccottiglia spirituale che imperversa nelle librerie religiose».
In effetti, spesso anche all’interno della Chiesa si continua a parlare dell’importanza della cultura ma poi – e in questo senza alcun dubbio la gerarchia ecclesiastica ha le sue responsabilità – è come se non ci si credesse veramente, non facendo nulla per realizzare le condizioni favorevoli alla sua nascita e sviluppo. In una delle sue ultime interviste, a proposito della figura e del ruolo dell’intellettuale, Derrida affermava: «Se ci si vuole interessare agli “intellettuali”, non bisogna limitarsi a chiedere loro dei rapporti inutili, ma è necessario anche leggerli, tenendone conto. Inoltre – sto sognando – qualche volta bisognerebbe pure partecipare ai loro seminari, ascoltando ciò di cui in essi si tratta!».