Agorà

Il personaggio. Ma l'altro PELLICO era gesuita

Filippo Rizzi martedì 29 aprile 2014
Gesuita anti-risorgimentale, cappellano di corte del re di Sardegna Carlo Alber­to, strenuo difensore dei diritti della Chiesa ma anche – come era definito a­mabilmente tra le mura domestiche dal fratello Silvio – «il teologo»... È la storia di Francesco Pellico (1802-1884), fratello minore dello scrittore, poeta e patriota italiano Silvio, l’autore delle immortali Le mie prigio­ni.  E di questo originale figlio di sant’Ignazio (di cui ri­corrono oggi i 130 anni dalla morte) rimangono ancora vivi, seppur impolverati dal tempo e dall’inevitabile o­blio, l’eredità, l’apostolato e lo zelo. Lo testimonia l’im­ponente biografia, pubblicata nel 1933 dal gesuita Ila­rio Rinieri, in cui emerge la figura di un sacerdote dai tratti eccezionali che si trovò a difendere i diritti della Chiesa, a sopportare l’espulsione del suo Ordine dal­l’amato Piemonte durante i moti del 1848, ad essere il bersaglio di feroci polemiche anticlericali ma anche a coltivare sempre un rapporto di amicizia, affetto e pietà cri­stiana mai venuto meno con il suo più noto fratello Silvio, il «prigioniero dello Spielberg».  Nell’Italia pre-unitaria la vi­cenda dei fratelli Pellico, come ha ben sottolineato lo storico Pietro Pirri, non fu l’unico ca­so in cui il fattore «Risorgi­mento » rappresentò una vera e propria «causa di famiglia»: gesuiti, negli stessi anni, erano Luigi Taparelli D’Azeglio (fra­tello dello statista Massimo), Giuseppe Bixio (fratello del ge­nerale garibaldino Nino) e Lui­gi Ricasoli (cugino del leggen­dario «barone di ferro» Betti­no). Di 13 anni più giovane di Silvio, il futuro gesuita nacque a Torino il 2 febbraio 1802 e gli fu imposto dalla madre Mar­gherita il nome di Francesco in onore del santo vescovo di Gi­nevra (Francesco di Sales); il ra­gazzo ebbe i primi rudimenti dell’istruzione proprio dal fra­tello maggiore («Francesco era scolaro di Silvio», si legge nelle memorie della sorella Giusep­pina) e giovanissimo entrò nel seminario di Torino per diven­tare prima sacerdote secolare (1823) e poi gesuita (1834).  Strano a pensarsi però – nono­stante le iniziali titubanze – Sil­vio Pellico (che era peraltro ter­ziario francescano) sosterrà per tutta la vita il fratello nella scelta, in un certo senso «con­trocorrente », di farsi gesuita. Ma è nella metà degli anni Quaranta dell’Ottocento che il nome di padre Pellico comin­cerà a imporsi sulla scena pub­blica: prima come assistente dell’allora provinciale dei gesuiti piemontesi, il futuro e focoso polemista de La Civiltà Cattolica Antonio Bresciani, e poi nel 1845 quan­do diventerà uno dei principali bersagli (assieme al confratello Carlo Maria Curci) dei libelli (Il primato , I prolegomeni e soprattutto Il gesuita moderno) dell’a­bate Vincenzo Gioberti contro la Compagnia di Gesù. Toccherà infatti al giovane gesuita rispondere al suo an­tico compagno di studi in teologia all’università di To­rino, alle accuse contro il suo ordine di essere il primo nemico della “modernità” e del “liberalismo” con il fa­moso scritto A Vincenzo Gioberti Francesco Pellico d.C.d.G.   Un testo che troverà il plauso pubblico del grande teologo piemontese Luigi Guala, del fratello Silvio e del re Carlo Alberto. (Nel 1852, alla morte di Gio­berti, avvenuta senza sacramenti e condannato dalla Chiesa, padre Francesco pregherà per la salvezza e in suffragio del suo «antico nemico»).  Il vero annus horribilis per padre Pellico sarà comun­que il 1848: da provinciale dei gesuiti piemontesi do­vrà subire l’espulsione dell’ordine dal Regno di Sarde­gna, la consegna di tutti i beni appartenu­ti alla Compagnia (tra cui la gloriosa chiesa dei Santi Martiri) allo Stato sabaudo e la conseguente disper­sione dei suoi confra­telli; pur ridotto a vi­vere in clandestinità a Torino, come annota il biografo Rinieri, padre Francesco si adopererà per evitare, qua­si in modo eroico, la «secolarizzazione» e l’uscita di tanti gesuiti dall’ordine e condannare, in una seppur inascoltata lettera di protesta indirizzata al Parlamen­to di Torino, i torti subiti dalla Compagnia e i «diritti violati» della Chiesa.  Con la fondazione nel 1850 a Napoli de La Civiltà Cat­tolica padre Pellico, nella sua veste di assistente del­l’allora generale della Compagnia Roothaann e di cen­sore, offrirà alla neonata pubblicazione due impor­tanti suggerimenti: quello di rimanere «sempre una rivista popolare» e di stare soprattutto «attenti solo sul­le cose del Papa». Sempre in questi anni e fino alla scomparsa di Silvio, avvenuta a Torino il 31 gennaio 1854, il gesuita Pellico, seppur dalla lontana Lione, intratterrà un rapporto di gran­de intimità ed affetto con l’autore de Le mie prigioni e di Francesca da Rimini, offrendogli attraverso lettere e preghiere un sostegno spi­rituale (come il suggerimento della recita del «Rosario Vivente» per guadagnarsi qualche «in­dulgenza » per la vita eterna); il tramite provvidenziale di questo rapporto speciale sarà, per i due fratelli, la sorella Giuseppina. Dal 1854 padre Francesco diventerà, in un certo sen­so, il custode della memoria dell’illustre parente (tra cui un carteggio con Ugo Foscolo, ritenuto dal gesui­ta «poco religioso e poco cattolico» per il tenore degli argomenti trattati); sempre a lui verranno consegnati il crocefisso, i breviari e la Bibbia usati da Silvio, nel corso della sua vita, con il famoso motto del poeta: Sursum corda.  Come ultimo sopravvissuto dei fratelli Pellico, molti anni dopo, l’anziano gesuita renderà o­maggio (recitando il De Profundis seguito dalle laco­niche parole «Preghiamo per l’anima sua») a Saluzzo (paese natale di Silvio) alla sta­tua eretta dall’amministrazio­ne comunale in onore dello scrittore e patriota del Risorgi­mento. Sempre padre France­sco si impegnerà poi con il col­legio degli scrittori della rivista che i manoscritti (tra cui mol­te lettere private) e le pubbli­cazioni del fratello Silvio fosse­ro acquistati e conservati dall’archivio de La Civiltà cattolica. Pochi anni dopo la morte del congiunto, nel 1859, pa­dre Pellico si troverà a Bologna appena occupata dai piemontesi e sotto il governo di Massimo D’Azeglio, ma continuerà indisturbato a svolgere i ministeri di sa­cerdote grazie all’intelligente sotterfugio di apporre sul cappello da prete «una coccarda tricolore»... Nel 1870 ritroviamo il gesuita a Roma, quasi per caso al mo­mento della presa di Porta Pia: i suoi occhi «incredu­li » vedranno l’uscita dolorosa e forzata di tanti suoi confratelli dalla chiesa del Gesù e dal Collegio Roma­no. Il resto della vita di questo religioso di razza, con­siderato forse a torto figlio dell’Ancien Regime, sarà de­dicato alla cura delle anime e alla pratica degli Eserci­zi Spirituali. Concluderà il ministero nel luogo dove a­veva incominciato la sua avventura di gesuita: nel no­viziato di Chieri, all’età di 83 anni. E a 130 anni dalla morte rimangono forse ancora attuali le parole che gli furono tributate dall’allora preposito generale della Compagnia di Gesù, il belga Pietro Beckx: «Fu un uo­mo degno della lode di tutte le virtù».