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INEDITI. Péguy-Claudel: la singolar tenzone

Fulvio Panzeri martedì 6 agosto 2013

Il ritardo con cui arriva in Italia la traduzione di un libro cardine per capire l’importanza di due grandi nomi della letteratura francese del Primo Novecento come Charles Péguy e Paul Claudel, la dice lunga sul senso di "trascuratezza" che ha sempre accompagnato la ricezione di questi due spiriti liberi, per niente schierati e tanto meno strumentalizzati. Ci sono voluti quarant’anni prima di rendere accessibile, in una edizione assai ben curata, il libro di Henri De Lubac, uno dei grandi teologi del Novecento, ispiratore del Concilio Vaticano II, scritto con Jean Bastaire, che inizialmente gli aveva chiesto, nel 1968, allora segretario dell’Associazione Charles Péguy, un articolo sul ritrovamento fortuito di cinque lettere di Claudel a Péguy e di alcune dediche dello stesso sui libri inviati all’autore de L’Annuncio a Maria. De Lubac che ha sempre dichiarato il debito intellettuale e teologico nei confronti dei due scrittori, accetta di buon grado, anzi si entusiasma del progetto, pensandolo in una forma molto ampia.

Lui stesso, nella Memoria intorno alle mie opere, così parla di Claudel e Péguy (edito ora dalla Marcianum di Venezia, pag. 272, euro 26,00): «Solo la prima parte è mia; la seconda è del mio amico Jean Bastaire. Si cercava qualcuno abbastanza neutrale, con amicizie nelle due direzioni, péguysta e claudeliana, che non sempre s’intendono a meraviglia, per pubblicare con un commento, i pochi scambi epistolari, diretti e indiretti, che questi due grandi ebbero tra il 1910 e il 1914. La fiducia di Pierre Claudel mi aveva indotto ad accettare questo lavoro, ma per realizzarlo avevo ideato un piano troppo vasto. Nel 1971 dovetti scusarmi, essendomi ammalato, senza speranza di guarire veramente e dovendo riservare le forze che mi restavano per impegni più ordinari». Così Bastaire accetta di concludere il libro, in una forma meno vasta del previsto. Esce nel 1974 e si presenta come uno studio rigorosissimo, sia come documentazione, sia come lettura critico-teologica, sia come indagine sui rapporti tra i due grandi scrittori, ma anche sul periodo in cui hanno operato. De Lubac ricorda anche come questa ricostruzione critica gli permettesse «di salutare sul tardi, due geni che associavo (quasi furtivamente poiché entrambi non erano allora riconosciuti intorno a me), prima ancora del mio ingresso in noviziato, nel 1913, in un quaderno che mi ha accompagnato a lungo. Paragonando l’uno all’altro, apprezzandoli nei loro contrasti, non ho mai cessato di impregnarmi, per così dire, della loro sostanza».

Così questo libro diventa per De Lubac l’occasione per ripercorrere temi, caratteri e aspirazione di due scrittori diversissimi tra di loro, il cui confronto è però, oltre che sostanziale, anche necessario. Non erano arrivati all’amicizia stretta, si guardavano e si leggevano da lontano, spesso erano in disaccordo, ma c’erano forti componenti che li univano. Al punto che non hanno mai voluto lo scontro diretto, perché sapevano di lavorare entrambi per il sacro. Nel 1913 Péguy ad alcuni amici scrive: «Claudel manca di semplicità. Ricerca tutto ciò che è estremo, pericoloso, eccezionale. Ha sempre bisogno di oltrepassare i limiti. Il suo cristianesimo possiede qualcosa di provocatorio! Intendiamoci bene, perché non voglio che si creino, non debbono esserci malintesi fra Claudel e me. Sia lui che io lavoriamo per il sacro. Ma io non sono l’uomo delle cime, sono l’uomo della pianura… Marcio con la plebe, seguo i percorsi di qualsiasi altro uomo, rimango a fianco di tutti gli altri uomini, di tutti coloro che vivono, è il caso di dire, la grazia di Dio». In una lettera del 1930, quindici anni dopo la morte di Péguy, Claudel invece dice: «Onoro Péguy ma con distacco. Camminiamo su due binari completamente separati che si incontrano soltanto idealmente. Egli è innanzitutto un francese, mentre io sono innanzitutto un cattolico. Quell’attenzione continua al suo io mi disturba molto». A farli incontrare è Andrè Gide, che apprezza molto, quando viene pubblicato, il Mistero della Carità di Giovanna D’Arco e ne manda una copia a Claudel che gli risponde: «Immaginavo Péguy (di cui non avevo letto nulla) come un dreyfusardo anarchico, un tipo intellettuale, tolstoiano, capace di altri orrori simili.

Ma ecco che il suo libro, al contrario, contiene un alto livello di delicato sentimento cristiano e cattolico, le pagine sulla Passione sono di una bellezza profonda e commovente e in ogni pagina si riscontrano particolari noti soltanto a un cuore profondamente religioso». Inizia da qui un confronto diretto sui libri, che a volte non lesina critiche che turbano l’altro o altre volte vanno in controtendenza con quella che è invece l’opinione generale. È il caso del Mistero dei Santi innocenti, non apprezzato da Gide, ma amato da Claudel che aveva particolarmente apprezzato l’atmosfera da «cavalleria francese», da «antica chanson de geste», da «antica vivacità popolare». Si tratta di un libro importante che ricostruisce due storie lontane, ma anche vicinissime, che ci raccontano un’esemplarità che Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, nella prefazione, indica come «recupero dell’esperienza del cattolicesimo nella sua autenticità, pertinenza e attualità, in opposizione a tutte quelle restrizioni e riduzioni che vivevano nel mondo culturale francese, ma che erano presenti anche al di là di esso, nel mondo culturale europeo di quel periodo». Un libro che apre a una serie di nuove conoscenze e di approfondimenti su coloro che De Lubac definiva «due poeti teologi dalla statura eccezionale, non schierati o strumentalizzati, come alcuni hanno sostenuto, ma al contrario troppo a lungo trascurati all’interno della Chiesa. Due universi differenti, ambedue ancora non sufficientemente esplorati». Queste pagine partecipi e rigorose al contempo potranno aiutare in un viaggio nuovo di scoperta.