Agorà

Il saggio. Bruck e Riccardi: paura e risentimento sono la miccia dell’odio

Massimo Giuliani sabato 16 novembre 2024

Manifestazione antisemita davanti a un teatro del Michigan dove si rappresentava "Il diario di Anna Frank"

Mondi diversi che si incontrano e si capiscono, nonostante si tratti di storie personali assai lontane l’una dall’altra, radicate in culture e ambiti religiosi non meno distanti. Sono i mondi di due testimoni del nostro tempo: Edith Bruck, scrittrice e giornalista ebrea, una delle ultime testimoni del “buco nero” chiamato Auschwitz, e Andrea Riccardi, storico dell’età contemporanea, tra i fondatori della comunità cattolica di sant’Egidio, già ministro e da anni impegnato a promuovere cooperazione e pace a livello internazionale. Il loro incontro dialogico si materializza in un libro, a due voci, dal titolo tanto semplice quanto in apparenza utopico, Oltre il male (Laterza, pagine 124, euro 15,00). Ma cos’è il male oggi? Sembra facile rispondere: la guerra è male, senza dubbio. Ma è “il male”? Non lo è, forse, soprattutto la volontà di annientare l’altro, di delegittimarlo e di prevaricare i suoi diritti, che è spesso il presupposto e la molla di tutte le guerre, e anche dei molti conflitti meno eclatanti dentro le famiglie e i condomìni? Si può fermare la spirale dell’odio, che di norma porta alla rovina non solo di chi è odiato ma pure chi odia? A quanto pare la memoria di quelle rovine, su cui si è fondata la “pace sociale” dell’Europa negli ultimi ottant’anni (con vistose eccezioni dall’Irlanda del nord ai Balcani), oggi è evaporata, a dispetto di tutte le giornate dedicate a ricordare e raccontarci gli orrori e gli errori del passato prossimo, divenuto troppo in fretta un trapassato remoto. L’odierno clima apocalittico, che brucia il futuro ma anche il presente dei nostri figli (deprimendoli a loro insaputa), non aiuta a coltivare una sana memoria, che non è ossessione ma elaborazione di quel che è stato, nelle sue ombre ma pure nelle sue luci. Infatti, per andare “oltre il male” bisogna capire cosa il male è, bisogna conoscerlo, studiarlo, analizzarlo, dargli un nome concreto. A rischio di subirne il fascino. Solo così si esce dal generico e dall’astratto, dalla mera lamentazione e dalla frustrazione che deriva dal sentirci impotenti, persino vittime di un sistema ovviamente malvagio per definizione, e compiacerci di essere tali. Il vittimismo è un consolante compagno del pensiero apocalittico.

Ebbene, una riflessione astratta non è la via intrapresa da Edith Bruck e Andrea Riccardi in questo loro dialogo tra diversi ma affini. Hanno scelto, saggiamente, un approccio esperienziale e narrativo, che parla piuttosto a partire dal loro vissuto: in Ungheria, in Israele e in Italia lei; a Roma e a Rimini e nel lavoro internazionale, specie in Mozambico, lui. Parlano del male a partire dalla loro lotta contro alcune situazione maligne cui hanno cercato di mettere un freno, di porre un limite, cui anzi hanno proposto un’alternativa. Solo così si diventa testimoni: se hai una storia positiva da contrapporre a una retorica distruttiva, che di solito è monologica e autistica, impermeabile al dolore altrui. Una retorica ideologica. Quando narra delle cinque luci, cinque micro-azioni che le hanno dato speranza nell’inferno di Auschwitz (come una gamella con un avanzo di cibo, o un piccolo pettine rotto regalato a lei, cui avevano rubato persino i capelli), Bruck testimonia la semplicissima speranza che l’umanità non è morta, sebbene quei gesti fossero mere “ombre di pietà”, e ci dice che la luce si riconosce solo nel buio, che soltanto quando tutti sembrano vaneggiare si riconoscono le parole della saggezza. Anche Riccardi non discetta da accademico, ma da uomo del dopoguerra che ha saputo discernere i mali della società italiana come le povertà urbane (tra i senza tetto, gli anziani) e le lacune della diplomazia politica, e ha proposto alternative sociali e culturali, accompagnate dalla convinzione che i diversi possono capirsi e trovare un common ground, un terreno comune, se davvero lo vogliono. Tra Riccardi e Bruck si dipana così un rincorrersi di buone ragioni per resistere ai guasti sociali, buone perché concrete, per non darla vinta a chi si parla attraverso le armi, gli insulti e il rifiuto.

La storia dell’antisemitismo, qui evocata dalle vicende personali di Edith Bruck, è emblematica di ogni filiera del male, che nasce nel pregiudizio (non nella differenza, si badi, ma nella diffidenza) e diviene ostilità psicologica e concettuale, per farsi poi teoria auto-evidente che tutto spiega, che persino giustifica i nostri insuccessi cercando fuori di noi il capro espiatorio, e da ultimo agisce (o vota per chi agisce) contro quello che noi immaginiamo sia la causa dei nostri mali, personali e collettivi. La filiera dell’odio è più lunga di quanto si pensi e la guerra è solo l’atto finale, la logica conclusione di una postura mentale nella quale la ragione è sopraffatta da emotività che si chiamano paura, risentimento, bisogno di identità. Questa filiera, ripeto, è ripercorsa da Bruck e Riccardi con esempi presi dalle loro esperienze e dalla loro determinazione a fare qualcosa per cambiare le cose. E non sono mai esperienze in solitario: Bruck rammenta il suo rapporto con Primo Levi (e le loro divergenze di opinioni, che ci stanno, anche da parte di due sopravvissuti al medesimo “male radicale”, per dirla con Hannah Arendt) e narra della religiosità non tradizionale della famiglia di suo marito; Riccardi narra della propria famiglia, dove c’erano sia antifascisti sia fascisti, come in tante altre famiglie italiane, e dello “spirito di Assisi” che la sant’Egidio ha continuato dopo l’iniziativa interreligiosa di Giovanni Paolo II.

Certamente, forse qualcosa manca in questa conversazione. Forse non tutto è detto. Ma le esperienze, seppur ragionate e rielaborate per essere divulgate, restano exempla, delle specie di parabole, di loro natura non esaustive e senza pretesa di assurgere a paradigmi universali. Solo nella concretezza del quotidiano, sembra qui si dica, solo nel particolare si può realizzare una “riparazione del mondo”, in un ebraico ormai diffuso chiamata tiqqun olam. Riparare, in italiano, è assai meno aulico e solenne del verbo redimere o salvare; tuttavia il concetto è il medesimo. Sembra poca cosa, riparare i dànni, causati da azioni maligne e da parole cattive, ma spesso la redenzione umana è soprattutto questa modesta riparazione, che nessuno può delegare ad altri. Al male morale si risponde solo con più coscienza e più responsabilità. È la lezione che ho tratto dall’ascolto di questi due protagonisti del nostro tempo, e mi pare degna di condivisione.