Società. Paura e comunità: il mito della prova che ci riduce a individui egoisti
Folla in una città
La paura è ambigua per natura. Da un lato senza paura la nostra sopravvivenza sarebbe più complicata. Come per il dolore, la sua assenza rischia di non farci accorgere dei pericoli veri, mortali o potenzialmente tali, con conseguenze fatali. La paura ci dà una chance di sopravvivenza. Esiste una neuropatia, definita con l’acronimo CIPA, che determina l’impossibilità di percepire il dolore. In apparenza una panacea. Non sentire il dolore. Invece è una sindrome estremamente pericolosa. Chi non avverte il dolore non è in grado di percepire i segni premonitori che lo avvisano di un potenziale disastro. Se non senti che il fuoco scotta ti brucerai sicuramente. Così la paura, almeno in parte. I pochi che sottoposti al poligrafo non fanno rilevare alcun sintomo di paura, anche minimo, sono individui con forti problematiche psichiche, scissi e spesso confinati in qualche braccio della morte.
La paura in sé non è un freno all’agire. È come una lampada che illumina i pericoli di un sentiero buio permettendo di affrontarli con cognizione di causa. Ma la paura può diventare anche blocco e strumento di controllo. Adolf Hitler, senza essere in questo particolarmente originale ma certamente esperto nel tema, definisce paura e forza come gli strumenti di controllo più efficaci al servizio del potere. Storicamente la Gestapo non aveva i numeri per controllare il popolo tedesco, quello indeterminato e non particolarmente entusiasta del nazismo. Quello della provincia rurale, quello per cui un potente vale l’altro purchè il quotidiano sia assicurato. Riuscì ad avere un potere assoluto su quel popolo proprio a causa della sua capacità di terrorizzare, favorendo la delazione, il collaborazionismo, l’infamia.
Gli aspetti della paura sono tanti e difficili da elencare tutti. Più facile è dire cosa la paura non è. La paura non è collante sociale. La paura non genera solidarietà vera. La paura non rende migliori. Il potere in generale, individuale, di gruppo o di stato, tende invece a dimostrare il contrario. Quando il terrore avvolge le popolazioni ecco che si innalza la retorica della solidarietà umana, molto diversa dalla solidarietà autentica. Il mito della forgia che temprerà tutti per dar vita a una umanità migliore.
Ciò che avviene per effetto della paura è dettato per la quasi totalità da un interesse personale, vero o percepito, non dalla tensione amorevole dell’uno verso l’altro. La paura è come una coltre pesante e ottusa che copre tutto il resto. Sotto la sua protezione prolifera tutto il carosello dei difetti umani, pronto a riprendere centralità non appena il motivo scatenante della paura diviene ricordo. Siamo fatti di carne e per la carne. Proprio per questo la paura, anche se astratta, riferita a un evento naturale, tende inevitabilmente nelle sue fasi altalenanti a personalizzarsi.
La reazione iniziale, nel dedalo della psiche umana mai risolta, tende via via a identificare i suoi effetti nefasti nelle persone. La paura trasforma l’altro in nemico, inevitabilmente e fatalmente. Fa coincidere la causa dei propri mali con l’altro. E genera un conflitto sordo e ingravescente che non di rado trova sfogo in comportamenti simbolo della miseria umana come delazione e distruzione. I tanti pogrom del ventesimo secolo ne sono un esempio molto evidente.
La paura agisce ovviamente anche sul piano individuale. La sua dissimulazione collettiva, quasi sempre retorica e moralistica, non protegge nessuno dagli effetti che ha sul piano personale. Non importa quali belle parole si usino per tentare di addomesticarla. Solo l’acquisizione di una profonda coscienza interiore può contrastare gli effetti nefasti della paura, in termini di negazione dell’altro. Ma è un processo quasi sempre in ritardo rispetto alla manifestazione dei sintomi.
La retorica del controllo tende a mostrare tutto questo come un percorso rigenerativo e terapeutico, passaggio necessario per accedere a un nuovo e più compiuto stadio di evoluzione. È ovviamente una distorsione strumentale. La paura coltivata e accudita non è altro che un fertile humus del male. Un male la cui relazione con il nostro quotidiano non ha soluzione di continuità. Un male profondo, autosufficiente e diffuso, sordo come la vera sofferenza, cui ogni accento retorico suona come profonda offesa.
Risposte la storia non ne dà. Perché non ce ne sono. La unica possibilità per l’uomo è il primato di autenticità ed empatia che, come sempre, divide l’umanità in grandi famiglie. Chi pur avendo paura combatte la tendenza a incolpare gli altri cercando in se stessi origine e soluzione, e chi invece alimenta il terrore in sé e negli altri perché vuole trarne un profitto, in termini di potere o mercato, distribuendo frutti di odio e separazione.