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Salone del Libro. Paul Lynch: irlandesi è meglio

Riccardo Michelucci venerdì 19 maggio 2017

Il “fenomeno” Paul Lynch sta per arrivare anche in Italia: esaltato dalla critica statunitense, acclamato da connazionali del calibro di Edna O’Brien, Colum McCann e Sebastian Barry, il quarantenne scrittore irlandese presenterà in anteprima al prossimo Salone di Torino (domenica alle 12.30 in Spazio Babel) il suo primo romanzo Cielo rosso al mattino (66th and 2nd, pagine 234, euro 17,00), poi partirà per un fitto calendario di incontri nel nord e nel centro Italia che si concluderà a Roma il 27 maggio. Più che un semplice scrittore, Lynch si è rivelato finora un predestinato al successo, capace di trasformare in grande letteratura tutto quello che scrive. In estate uscirà negli Stati Uniti il suo terzo romanzo – Grace – che si annuncia come la sua consacrazione definitiva, a metà strada tra il lirismo apocalittico di Cormac Mc-Carthy e il sostrato rurale della poetica di Seamus Heaney. Anni fa, quando era ancora un esordiente, i principali editori britannici si contesero le sue prime due opere con un’asta furibonda, e lui non ha tradito le aspettative, con una voce originalissima e appassionata che dona pari dignità alla violenza e alla bellezza, all’incanto e all’orrore. Dalla sua casa di Dublino, dove lo abbiamo raggiunto per intervistarlo prima della sua partenza per l’Italia, ci racconta che proprio il nostro Paese ha avuto un ruolo decisivo nel fare di lui uno scrittore. «Ho lavorato a lungo come critico cinematografico di un importante quotidiano irlandese, il “Sunday Tribune”. Già allora cercavo di scrivere recensioni molto ricercate e attente alla forma letteraria, non ero mai contento di quello che scrivevo. Una decina d’anni fa ero in vacanza in Sicilia, nell’isola di Lipari, ed ebbi come un’illuminazione, una voce in testa che mi diceva, “sei uno scrittore e devi cominciare a scrivere. Forse non ci riuscirai ma devi metterti alla prova”. Fu uno di quei momenti che ti cambiano la vita. Arrivai in albergo e mi misi a scrivere il racconto che avevo in mente. Non molto tempo dopo ho trovato finalmente la mia voce come scrittore e ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo». Poiché il linguaggio letterario e quello filmico stabiliscono spesso una forma di dialogo e di scambio reciproco, è innegabile che lo stile di Lynch debba molto al cinema e al suo precedente lavoro di critico cinematografico. «La regola principale che ho imparato dal cinema è “entra nella scena il più tardi possibile ed esci prima che puoi, senza alcuna perdita di tempo”... Oltre che da McCarthy, la mia scrittura risente dell’influenza del regista francese Robert Bresson. Quanto al dialogo tra le due forme di narrazione, è proprio così, d’altra parte anche il grande D.W. Griffith, padre del cinema narrativo, si ispirava al modo in cui Dickens costruiva le scene dei suoi romanzi, e cercò di replicarle al cinema».

C’è poi un elemento linguistico dirompente, che spiega in parte anche il successo della letteratura irlandese contemporanea, ed è la percezione che l’inglese d’Irlanda sia in qualche modo più ricco di quello degli altri paesi di lingua inglese. Lo stile di Lynch risente delle influenze del cosiddetto “Hiberno-English”, il dialetto inglese irlandese che non è di per sé differente da quello che si parla in Inghilterra, ma ha alcune costruzioni lessicali insolite, spesso capovolte, e forme linguistiche derivate da antiche espressioni gaeliche. «È una lingua che talvolta scorre in modo un po’ diverso, creando un suono dav- vero unicamente irlandese», ammette Lynch. «Nella lingua dei più grandi scrittori irlandesi del XX secolo c’è sempre un senso di implicita libertà che non possiamo riscontrare in altri autori di lingua inglese, ma non irlandesi. L’incontro con le forme grammaticali dell’antico idioma gaelico ha dato nuova forma e musicalità all’inglese. Siamo stati colonizzati dagli inglesi ma noi abbiamo colonizzato la loro lingua». Cielo rosso al mattino, il romanzo che lo farà conoscere al pubblico italiano, è un libro duro, a tratti feroce, intriso di rabbia e dolore, che parla di povertà, emigrazione e pregiudizi razziali. Liberamente ispirato alla storia del “Duffy’s Cut”, una delle vicende più dolorose e misteriose che hanno coinvolto l’emigrazione irlandese negli Stati Uniti nel XIX secolo (57 operai immigrati uccisi e gettati in una fossa comune dopo la diffusione di un’epidemia di colera in un cantiere della ferrovia di Philadelphia, nel 1832), racconta la storia di Coll Coyle, un contadino irlandese che uccide il figlio del padrone ed è costretto a scappare per il resto della sua vita. Il romanzo, costruito con una lingua lirica e immaginifica, è suddiviso in tre parti con altrettante ambientazioni: la prima si svolge nella contea irlandese del Donegal, e vede il protagonista in fuga; la seconda racconta il suo viaggio verso gli Usa in una nave carica di emigranti; nella terza trova lavoro come operaio nella costruenda linea ferroviaria della Pennsylvania. Coyle è costantemente braccato, e ciò aggiunge un senso di tragica ineluttabilità alla narrazione. Lynch afferma di non essersi identificato nel protagonista, né in altri personaggi del libro, anche se l’ambientazione iniziale lo riguarda molto da vicino. «Sono cresciuto in un piccolo villaggio del Donegal – spiega – ma non mi sono mai identificato con quel luogo, mi sono sempre considerato un estraneo ma curiosamente. Quando ho cominciato a scrivere, la mia immaginazione è però tornata laggiù e quel luogo si è trasformato in qualcosa di mitico e antico che mi parlava in un modo completamente diverso».

Cielo rosso al mattino è un romanzo ambientato quasi due secoli fa, dove le vite dei personaggi sono cambiate da forze economiche più grandi di loro, e traccia anche una metafora dei giorni nostri. «Nel 2011, quando mi sono messo a scriverlo – rivela Lynch – vedevo i miei amici del Donegal costretti a emigrare proprio come accade nel libro. In quel periodo chiuse il mio giornale, mio fratello e mia sorella persero il lavoro, i miei vicini furono costretti a trasferirsi in America e in Canada. Per la mia generazione, che aveva vissuto il boom economico della Tigre celtica senza aver mai conosciuto l’emigrazione, fu uno choc terribile, ci rendemmo conto che il sogno del benessere che credevamo eterno era finito. Raccontare un passato tragico come quello vissuto dal mio paese nella prima metà del XIX secolo è stato anche un modo per fare i conti con la nostra identità».