Letteratura. Perché con Paul Auster è finito il grande romanzo americano
Lo scrittore americano Paul Auster
Philip Roth nel 2018, all’età di 85 anni. Il premio Nobel Toni Morrison nel 2019, a 88. E poi Cormac McCarthy nel giugno dello scorso, qualche settimana prima di compierne 90. Adesso, con la morte di Paul Auster (mancato a New York il 30 aprile) la letteratura statunitense perde un’altra delle sue voci più amate e conosciute. L’elenco degli obituaries, in effetti, sarebbe ancora più articolato. Poco più di un mese fa, per esempio, è uscito di scena il 93enne John Barth, maestro riconosciuto del postmoderno. L’impressione è che la famiglia del Grande Romanzo Americano – almeno per come lo abbiamo inteso per molto tempo – si stia assottigliando fin quasi a scomparire. Non si hanno notizie recenti dell’elusivo Thomas Pynchon, che a giorni dovrebbe celebrare l’87° compleanno, ed è ancora in attività Don DeLillo, classe 1936, ma nel complesso il quadro si sta spopolando. Non che gli scrittori statunitensi stiano scomparendo, è chiaro. Sono moltissimi, e molto tradotti in tutto il mondo, specie in Italia, dove quella che una volta si chiamava “letteratura di traduzione” gode di duraturo prestigio. Qualche nome? Jonathan Franzen, Ottessa Moshfegh, Bret Easton Ellis, Donna Tartt, Jonathan Lethem, e anche qui – volendo – il catalogo potrebbe procedere per un bel po’. Nel passaggio tra una generazione e l’altra, però, è qualcosa è cambiato.
Lo si comprende bene gettando uno sguardo retrospettivo sull’opera di Auster, che con i suoi 77 anni rimane il più relativamente giovane fra gli scrittori di richiamo scomparsi di recente (in Italia, ricordiamolo, i suoi libri sono pubblicati da Einaudi). Come Roth, era originario di Newark, in New Jersey, ma si era rapidamente imposto come il narratore di New York. Un’antonomasia sancita dalla celebre trilogia in cui convergono Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa, romanzi apparsi in rapida successione tra il 1985 e il 1987. In pieno minimalismo, la scrittura di Auster rivendicava un’essenzialità di natura radicalmente diversa, in virtù della quale la parodia di un genere all-american come il poliziesco urbano poteva caricarsi di significati inattesi: melanconici, introspettivi, metafisici. La sua non era un’ispirazione religiosa, anche se nella sua bibliografia è compreso un libro decisamente curioso, Ho pensato che mio padre fosse Dio (2001), nel quale Auster rielaborava nel suo stile le storie personali confidategli dagli ascoltatori della National Public Radio. Più che dalla provvidenza, la sua immaginazione era guidata da quella che, in uno dei suoi titoli più rappresentativi, viene definita «la musica del caos».
Coincidenze inesplicabili, sincronicità rivelatrici, un senso di magia che pervade la realtà senza contraddirla. Derivava da questa intuizione, per esempio, il dispositivo di 4 3 2 1 del 2017, virtuosistica variazione sul tema del destino, con il medesimo personaggio che vive un’esistenza di volta in volta differente a seconda del combinarsi degli eventi. Questo libro, che ha avuto accoglienza contrastata, è la più consapevole approssimazione di Auster al progetto del Grande Romanzo Americano. Forse, però, la sua cifra più caratteristica di scrittore non sta nell’inseguimento di una chimera che, fin dal suo profilarsi a metà dell’Ottocento con il Moby Dick di Herman Melville, si contraddistingue per la natura spuria e sfuggente. Poeta e regista cinematografico oltre che narratore, Auster è stato infatti un formidabile narratore in prima persona, a partire da L’invenzione della solitudine, il memoir del 1982 che lanciò la sua carriera, per arrivare alla splendida meditazione senile di Diario d’inverno (2012). È nel territorio in cui più domina la libertà che la scrittura si manifesta in tutta la sua urgenza. Non per niente, il testamento di Auster è consegnato al Baumgartner, apologo narrativo magnificamente giocato sul rispecchiamento tra autobiografia e finzione. Non sarà il Grande Romanzo Americano, ma è un grande romanzo, e questo può bastare.