Automobilismo. Patrese: «Ora allevo cavalli. La Formula 1? Ha perso l'anima»
Patrese (a sinistra) con Bernie Ecclestone
Formula 1 anni ’80, quando Senna correva ancora e al volante dei bolidi del grande circus vedevi in pista l’ultima vera squadra di piloti italiani: Riccardo Patrese, Michele Alboreto Bruno Giacomelli, Elio De Angelis… Tutti giovani, forti e belli e “ogni anno, si andava ospiti da lady Ljuba a Villa Rizzoli, a Cap-Ferrat”. Tutto questo mondo di ieri rivive e scorre veloce in F1 Backstage. Storie di uomini in corsa (Rizzoli. Pagine 236. Euro 18,00): il diario dell’automobilismo epico che l’evergreen, il 70enne Riccardo Patrese ha dettato allo scriba massimo dei motori, Giorgio Terruzzi. Una lunga storia d’amore con le quattro ruote durata 17 anni, dal debutto al Gp di Montecarlo del 1977, all’ultima stagione da protagonista del paddock, quella del ritiro avvenuto nel ’93 dopo 256 Gp corsi, record assoluto fino a Monza 2008.
Cominciamo dalla fine, e da un fuori pagina di F1 Backstage, c'è il Gp di Austin, ma uno che ha vissuto l’automobilismo epico come lo vede il circus attuale?
"Più confuso di una volta. Troppe regole dall’esterno, troppe penalità, a volte anche io faccio fatica a capire. Si è persa quella filosofia essenziale della guida istintiva e genuina che caratterizzava la mia generazione. Ma questa è la triste evoluzione di un po’ tutto lo sport moderno che è diventato fondamentalmente spettacolo. Stefano Domenicali (Presidente Formula One Group) ha detto che ormai i Gp sono un “evento social”: la gente va a Monza per incontrarsi, magari per stringere affari e la gara diventa un fatto marginale”.
“Evoluzione”, vuol dire anche la F1 schiava, come tutto il resto, della tecnologia?
“Il talento puro rimane e quello vale ed è vincente in ogni epoca che si avvicenda. E’ sparita la gavetta, prima ci volevano anni per arrivare al top, oggi tanti piloti debuttano in Formula1 senza possedere l’ esperienza sufficiente. Molti dei piloti di adesso non sarebbero stati in grado di guidare e ancora meno di vincere con le nostre macchine”.
Questione di “manico” si diceva allora.
“Manico e testa. Eravamo 20 in lizza per il Mondiale e ognuno di noi era solo nella sua monoposto, nessuno ti poteva insegnare niente e tanto meno potevano aiutarti dai box come accade oggi che tutto è intercettato da radiocorsa, tutto viene prima studiato e pianificato nel dettaglio al computer. Il pilota del terzo millennio è “pilotato”, nel senso che è esentato dalla responsabilità di trovare il materiale giusto per migliorare la prestazione della sua macchina, lui arriva sempre molto dopo che questa è già passata dalla galleria del vento e quindi la messa a punto si fa a casa, non più in pista e mai a gara in corso”.
La sua storia insegna che per diventare un pilota di F1 si partiva dai kart, si vinceva il titolo mondiale a 20 anni e poi cominciava la scalata.
“Anche adesso si comincia dal kart, ma non corri più con quello personale, quello che io da ragazzino alla domenica caricavo sul portapacchi dell’auto di mio padre e andavo a fare la gara. Ora anche al mondiale di kart se ci arrivi non puoi entrare e giocartela da solista, devi per forza venire ingaggiato da team professionistici e sperare che ci siano grossi investimenti interni o esterni per scalare fino alla F1”
A proposito di famiglia: sua madre, lei racconta nel libro, che quando cominciò a vincere e a puntare in alto insisteva per volerlo dottore piuttosto che pilota.
“Ambizione legittima di una mamma professoressa di Lettere, infatti mi iscrissi a Scienze Politiche. Ma una volta entrato nel massimo sistema motoristico a casa non si è parlato più di laurea e non perché avessi svoltato economicamente. Con Trivellato in Formula 2 ancora tra entrate e uscite al massimo chiudevo in pareggio. I primi guadagni sono arrivati quando sono approdato in Formula 1”.
Debutto su una Shadow al Gp di Montecarlo del ’77. E sulla pista del Principato cinque anni dopo centrò il primo dei sei successi in carriera in un un Mondiale, quello dell’82, ancora pieno di “caschi tricolori”.
“Una gara rocambolesca quella dell'82 che racconto in un capitolo emozionante di Fi Backstage, alla fine quando sono salito sul podio non ci credevo ancora che avessi vinto. Nel Mondiale degli anni ’80 potevi trovare anche 12-13 piloti italiani al via e al volante di macchine competitive: De Cesaris, De Angelis, Giacomelli, Alboreto su Ferrari e Cheever che era “l’americano de Roma”. Erano ancora tempi in cui gli sponsor appoggiavano e credevano nel talento di casa nostra, oggi se in Formula 1 entra un italiano è perché la Mercedes ha deciso di puntare su di lui”.
Ci arriviamo ad Andrea Kimi Antonelli, ma prima torniamo alla notte magica di Montecarlo che si concluse con il gala del Principe Ranieri e un valzer con la Principessa Grace Kelly.
“Era ancora un mondo da fiaba in cui poteva accadere che un tennista come l’argentino Vilas scrivesse poesie che facevano battere il cuore di Carolina di Monaco. E io che vinco il Gp di Montecarlo mi ritrovo al tavolo con il Principe Ranieri e con la Principessa Grace Kelly, la quale si prese cura di me e mi insegnò a danzare, perché io candido gli confessai che non avevo mai ballato il valzer in vita mia. Era un mondo più romantico, dove tutto poteva accadere, perché anche nell’automobilismo si viveva umanamente, e alla giornata”.
Si viveva di sogni e magari in cima alla sua lista c’era quello di diventare compagno di squadra alla Ferrari di Gilles Villeneuve con cui ingaggiava splendidi duelli in pista.
“Purtroppo quello era un sogno impossibile, perché quando iniziai a parlare con l’Ingegnere (Enzo Ferrari) della possibilità di un mio passaggio a Maranello l’avrei fatto solo in sostituzione di Gilles che in quel periodo era nell’occhio del ciclone, faceva molti incidenti e non portava a termine le gare… Poi le cose per lui andarono meglio, Ferrari lo adorava. L’incidente di Lovanio se lo è portato via al povero Villeneuve e io presi altre strade”.
Quella Formula 1 era più mortale rispetto a oggi…
“Tanti colleghi e compagni di vita se ne sono andati così, morti in pista. Allora la sicurezza era davvero precaria, ma col senno di poi mi viene da dire che i lutti in quegli anni potevano essere molti di più. Oggi sia le macchine che i circuiti hanno lavorato tanto sulla sicurezza e la Formula 1 in questo momento è tra i motorsport meno rischiosi. Poi sì sa, l’imponderabile è sempre dietro la curva”.
Uno dei lutti che sconvolse la F1 fu quello di Ayrton Senna, specie in Brasile ha lasciato un vuoto incolmabile.
“Ayrton era un pilota spirituale, molto affabile nelle corse ma anche assai duro quando l’avevi gomito a gomito. Una persona incredibile, talento eccelso. Ho avuto la fortuna di chiudere la carriera alla Benetton con l’altro fenomeno che con Senna ha inciso profondamente nella storia dell’automobilismo, Michael Schumacher. Negli anni da supercampione vissuti alla Ferrari Michael non passava certo per un simpatico ma è stato un grande. Senna rispetto a lui era empatico con le folle, trasmetteva qualcosa di indescrivibile, diciamo che uno è stato il Pelè della Formula 1 e l’altro il Beckenbauer. Mi dispiace tanto di non aver più rivisto Schumacher dopo l’incidente, ma purtroppo non c’è stata l’opportunità”.
Nel diario della sua lunga e luminosa carriera c’è una "pagina nera": la morte di Ronnie Peterson…
“Una ferita aperta per molto tempo, difficile da rimarginare se non avessi avuto la forza e la personalità di reagire che ho. Io ero davanti a tutto quello che è successo nell’incidente di Peterson, dai giudici non mi era stata data nessuna sanzione, salvo poi impedirmi di correre il Gp successivo in America. Mi misero sulla graticola ed è stato uno choc ritrovarsi a 24 anni in un’aula di tribunale a dover rispondere, da innocente, a un procedimento penale in cui rischiavo di chiuderla lì. Ne sono uscito a testa alta ma per molti anni non riuscivo più a fidarmi di nessuno dopo quello che mi era successo. E’ stata un’ingiustizia e tanti che credevo fossero amici o almeno persone e avversari leali, mi avevano pugnalato alle spalle, e senza motivo”.
Uno che non l’ha mai abbandonata è stato Bernie Ecclestone.
"Un genio Bernie, l’uomo che ha rivoluzionato la Formula 1 rendendola quel grande showbusiness che è oggi. Personalmente gli devo tanto, ci siamo piaciuti fin dal primo incontro. Ecclestone ha avuto fiducia in me dandomi i consigli giusti e riprendendomi sempre per mano quando ne avevo bisogno: nell’86 mi ha allungato la carriera riportandomi alla Brabham e poi due anni dopo mi ha aiutato ad andare alla Williams dove ho vissuto cinque anni fantastici”.
Con la Williams è andato vicino al titolo Mondiale.
“Avevamo una macchina competitiva ma che non poteva reggere l’urto della McLaren: nel ’91 Senna vinse i primi 4 Gp di fila e fece il vuoto dietro di sé. Nel ‘92 la mia Williams era dominante ma non era concepibile che un italiano su una monoposto inglese vincesse il Mondiale per di più con un compagno di scuderia inglese come Nigel Mansell... Anche per l’onestà intellettuale britannica quello sarebbe stato un po’ troppo”.
Come accennavamo prima, il 18enne Andrea Kimi Antonelli nel 2025 sarà il nuovo pilota della Mercedes. Abbiamo trovato anche il Sinner della Formula 1?
“No, a quella tipologia di supercampione precoce appartengono i Verstappen, gli Hamilton o i Senna. Vero che quattro anni fa mai avrei pensato che Sinner diventasse il n.1 e l’invincibile del tennis, però la storia di Kimi Antonelli è diversa. Lui è giovanissimo e al momento ha grandi possibilità per diventare competitivo, ma per essere il n.1 in F1 ci vuole esperienza, la macchina giusta, il team che ti supporta a dovere e poi, non ultima, la giusta dose di fortuna per superare i tanti fattori imponderabili, incidenti compresi”.
Anche suo figlio Lorenzo è un pilota, la saga dei Patrese in F1 continua?
“Lorenzo gareggia con l’Audi nel Campionato Gt3, che è il vero professionismo dell’automobilismo, con tanti team attrezzati e di prestigio, dalla Ferrari, alla Lamborghini, passando per Mercedes e Aston Martin, che ti pagano per correre. Quindi il suo “gol” futuro potrebbe essere vincere la 24 ore di Le Mans. La Formula 1 è un miraggio, anche perché hanno messo troppi paletti per arrivare alla superlicenza e anche una volta che la ottieni il budget lo devi portare tu, e lì si parla di milioni di euro da investire sul lungo periodo, e tutti di tasca propria”.
Concludendo, oggi Riccardo Patrese è passato dai cavalli del motore di un bolide di F1 ai cavalli da addestrare.
“L’equitazione è diventata una questione di famiglia. Grazie alla passione per i cavalli ho conosciuto mia moglie Francesca. Lorenzo fino a 14 anni gareggiava nel salto a ostacoli. Abbiamo una nostra scuderia e grazie ad Andrea Olmi, il figlio del grande regista Ermanno, ho scoperto un metodo etologico che mi permette di comunicare e di comprendere come ragionano i cavalli. Ora sono loro che mi vengono a cercare e non viceversa. Sì – sorride salutandoci – il prossimo libro potrei anche intitolarlo “il pilota che sussurra ai cavalli”.