Storia. Nel cantiere del Pasubio la Strada delle gallerie
L'ingresso della prima galleria. Foto Mario Zuliani
Nel pieno di uno degli inverni più freddi e nevosi del secolo scorso, verso la fine di febbraio 1917, l’esercito italiano apre il cantiere di una tra le più imponenti e ardite infrastrutture belliche del primo conflitto mondiale. Quando ancora sul Pasubio ci sono metri e metri di neve, gli uomini della 33ª Compagnia minatori del Genio danno i primi colpi di piccone per realizzare quella che, cent’anni dopo, è ancora conosciuta come la Strada delle gallerie o della Prima armata. Un’opera che doveva servire per rifornire il fronte e tentare sortite contro il nemico, appostato appena al di là del monte. In quei giorni, ai soldati si presenta una montagna arcigna e, all’apparenza, praticamente inaccessibile. Nove mesi dopo sarà percorsa da una strada mulattiera, perfettamente rifinita in tutti i particolari, lunga sei chilometri e trecento metri, che si inerpica fra guglie, torrioni e dirupi vertiginosi, attraversando il cuore del massiccio roccioso con 52 gallerie.
Un cantiere immenso, a cui lavoreranno, in diverse fasi, fino a mille soldati-operai, che ora rivivrà in una mostra fotografica – promossa dal Comune di Schio, dalla locale sezione del Club alpino italiano e dall’Unione montana Pasubio-Alto vicentino – ospitata a Palazzo Fogazzaro dal 26 marzo al 24 settembre. Attraverso immagini d’epoca, ma anche attingendo agli archivi dei 35mila escursionisti che, ogni anno, la percorrono (ai quali sarà chiesto di donare uno scatto realizzato sul Pasubio, contribuendo così a completare l’allestimento), sarà possibile rivivere l’epopea della costruzione della strada, riassaporarne il mito e osservarla da prospettive diverse, grazie alle più recenti innovazioni della tecnica fotografica, fino ad arrivare alla mappatura in 3D del percorso, realizzata con lo scanner laser. «Diversamente da altri luoghi, o manu-fatti della guerra sulle nostre montagne – spiega il curatore della mostra, Claudio Rigon – la Strada delle gallerie è un luogo ancora vivo, e fra i più amati. Ha saputo nel tempo divenire una strada speciale, “un cammino”, con migliaia e migliaia di escursionisti che vengono ogni anno a percorrerla da ogni parte d’Europa. Perché non è mai stata, forse nemmeno durante la guerra, solo una via di accesso, un semplice itinerario per arrivare a un luogo. È sempre stata un luogo essa stessa, una di quelle strade che sono insieme percorso e meta. Un’esperienza, che racchiude in sé il suo significato». Riviviamola, allora, l’epopea della Strada delle gallerie e cominciamo dalle parole del sottotenente Ugo Cassina, uno degli ufficiali della 33ª Compagnia minatori, che, nell’immediato dopoguerra, redasse un puntuale e preciso diario dell’impresa. «Non esisteva un vero progetto definitivo del lavoro, perché era impossibile redigerlo – scrive il militare –. Si decise di innalzarsi man mano e di condurre avanti contemporaneamente un sentiero, che permettesse di studiare il tracciato ulteriore della strada. Lo scopo principale che ci proponemmo innanzitutto – continua Cassina – fu quello di raggiungere la cresta della parete rocciosa che s’elevava a picco, di fronte a Bocchetta Campiglia. Poi, avremmo deciso il da farsi. Infatti noi sapevamo di dover raggiungere Forni Alti e il Passo di Fontana d’Oro, ma non avevamo la minima idea del come avremmo potuto arrivarci, perché la Bella Laita, che bisognava attraversare, era inaccessibile ».
Gli uomini, però, non si scoraggiano e seguono le direttive del comandante della compagnia, il sottotenente Giuseppe Zappa, la cui autorevolezza è il vero collante della squadra di lavoro. In appena tre mesi, dal 15 gennaio al 21 aprile 1917, quando è destinato ad altro incarico, Zappa – dalla «barba cappuccina» che lo fa sembrare più anziano dei suoi vent’anni – avanza sulla montagna fino alla quattordicesima galleria. La sua impronta, sull’opera complessiva, è talmente netta che, al momento del congedo gli uomini temono di non riuscire a portarla a termine in assenza del «Maestro». Tra i meriti di Zappa, ci fu anche il notevole risultato di contenere al minimo le morti sul cantiere. Pur operando in condizioni estreme, nei nove mesi di lavoro si ebbero quattro vittime tra i soldati-operai e nessuno di questi perì nei tre mesi di permanenza di Zappa al comando. «Un risultato che ha dell’incredibile anche cent’anni dopo», dice con orgoglio il figlio Carlo, che ha donato numerose fotografie, scattate dal padre, per l’allestimento della mostra.